17 agosto 2006

Laboratorio 2: "La formazione dei soccorritori e la selezione dei volontari"

Responsabili: Giampaolo Libardi, Delfo Bonenti

LABORATORIO n.2 - NOTE ORGANIZZATIVE (a cura di G.Libardi)

Vincoli di tempo:
Il laboratorio ha una durata complessiva di 7 ore e 30 min. comprese le pause intermedie di circa 20 min. ciascuna.
La chiusura dei lavori al mattino è legata alla necessità della mensa (alle 13 è necessario interrompere) e all’arrivo delle autorità invitate (alle 18 i lavori devono essere conclusi).
Qualunque sia il lavoro svolto è indispensabile che l’ultima mezz’ora della mattinata e l’ultima mezz’ora del pomeriggio siano riservate alla socializzazione di quanto prodotto.
Sarà utile prevedere circa 30 minuti all’inizio della giornata di lavoro per la presentazione dei partecipanti (si stimano almeno 20 persone presenti) e del come verrà strutturata la giornata.
Nota finale:
l’effettivo spazio per trattare i diversi contenuti è limitato a 5 ore e 20 minuti che – tenendo conto delle alte probabilità con cui si possono verificare imprevisti – possiamo ridurre a 5 ore.

Temi:
Il laboratorio prevede riflessioni su due temi distinti, ma strettamente collegati l’uno all’altro e di uguale importanza:
-Il primo è di carattere generale e riguarda la formazione dei soccorritori siano essi professionisti o volontari, con anni di esperienza o new entry nelle organizzazioni di appartenenza (resp. Giampaolo Libardi)
-Il secondo è di carattere più specifico e riguarda la selezione di una particolare area di soccorritori costituita dai soli volontari. (resp. Delfo Ponenti)
Nota finale:
Ad entrambi i temi verrà riservato un identico spazio.

Gli esiti attesi dai lavori:
La parola “formazione” si presta a molteplici interpretazioni e suscita atteggiamenti e risposte diverse a seconda dei contesti in cui viene collocata e degli interlocutori a cui si rivolge. D’altra parte il mondo dei soccorritori è estremamente vario e complesso. Sarebbe interessante riuscire nel corso del laboratorio sul tema “la formazione dei soccorritori” a delineare:

1) Chi sono i soccorritori e attraverso quali criteri possiamo raggrupparli in categorie;
2) Cosa vogliamo intendere con la parola formazione quando la riferiamo a questo tipo di “lavoratori del sociale in situazione di emergenza”;
3) Quali specificità dobbiamo considerare per svolgere un ruolo attivo ed efficace all’interno delle varie categorie di soccoritori

Nei vari contesti di intervento in situazione di calamità/disastri, naturali o provocati dall’uomo si richiedono ai soccorritori delle caratteristiche o qualità personali specifiche. Ci si attende come esito dal laboratorio sul tema “la selezione dei volontari” delle indicazioni su:

1) caratteristiche distintive del volontario che vuole svolgere l’azione di soccorritore e breve descrizione delle stesse;
2) peso relativo delle caratteristiche individuate al fine di una valutazione del candidato;
3) raggruppamento delle caratteristiche individuate distinguendo quelle che devono essere possedute, da quelle che possono essere migliorate;
4) suggerimenti per la messa a punto di strumenti o protocolli per l’identificazione e la valutazione delle caratteristiche individuate;
5) suggerimenti sulle modalità con cui facilitare al volontario l’acquisizione delle caratteristiche individuate come suscettibili di miglioramento.

Proposte da rilanciare
Le ipotesi di rilancio si collocano su due direttrici distinte:
a) da un lato, si considera utile che gli esisti dei lavori siano confrontati con Responsabili nazionali e locali della Protezione Civile per individuare degli spazi all’interno dei piani formativi attivati che sappiano considerare la preparazione tecnica del soccorritore, ma anche la sua dimensione psicologica
b) dall’altro, si considera utile che all’interno del mondo accademico si approfondiscano riflessioni e scambi che considerino quanto emerso e ricerchino strumenti di selezione e valutazione dei volontari.


A proposito di formazione
(a cura di M.T.Fenoglio)


E’ indubbio che la domanda di psicologia che in questi anni è arrivata a Psicologi per i Popoli dalla protezione Civile e altre organizzazioni di volontariato è stata in prima istanza domanda di formazione.

Da una analisi per ora non sistematica delle domande pervenuteci, risulta che essa in parte discende dalla consapevolezza di non aver fino ad oggi affrontato adeguatamente il tema delle reazioni psicologiche di vittime e soccorritori in emergenza; in parte però appare il frutto di un desiderio di avvicinarsi a una tematica coinvolgente e scottante garantendosi la dovuta “distanza di sicurezza”.
Questa distanza, che può certamente sottintendere una specifica resistenza, va tuttavia a mio avviso considerata come un segnale importante di ciò che l’emergenza rappresenta per i soggetti che ci contattano, sul piano sia emotivo che culturale.
La richiesta della distanza va presa perciò molto sul serio, rispettata nella sua sostanza, e sviluppata in un avvicinamento graduale atto a favorire una reciproca conoscenza e fiducia. La domanda di corsi di formazione, quindi, va a mio avviso accolta ma non enfatizzata come esperienza di “docenza di aula”. Credo invece utile cogliere queste occasioni per porre ascolto a ciò che i partecipanti vogliono esprimere, senza fretta di sovrapporre ai contenuti che i partecipanti propongono schematizzazioni di varia natura.

Credo sia importante muoverci in equilibrio tra gli opposti pericoli del troppo silenzio, che può venir letto come atteggiamento profetico detentore di potere, e del troppo “parlato”, che rischia di saturare e ingessare l’incontro fornendo “risposte” preconfezionate.

Del resto la “teoria della formazione” poggia sugli assunti bioniani di “formazione a pensare”: il lavoro formativo consente ai partecipanti di “tenere un discorso” sulle proprie esperienze, grazie a questo distanziarsene aprendosi alla possibilità di “immaginarsi diversi”. Si tratta quindi di un processo che, anche se si può avvalere di lezioni frontali, non si identifica con queste, né con una generica “trasmissione attiva” di contenuti.

Nel corso della mia attività professionale come formatrice ho tuttavia constatato come la situazione di “aula”, con i suoi tempi concentrati, l’enfasi sulla parola, la dinamica del gruppo, ecc. non sempre è ben tollerata dai partecipanti, dai quali viene avanzata prima di tutto una domanda di conferma e sostegno alle proprie scelte, più che di “cambiamento” a fronte di vere e proprie difficoltà conclamate. Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurre questo tipo di domanda alla semplice richiesta di approvazione narcisistica: ciò che sembra motivare molte persone a partecipare a un corso di formazione sembra piuttosto il desiderio di tradurre a un terzo, di raccontare all’interno di uno spazio dedicato una esperienza che non ha ancora trovato una occasione per dirsi.
La formazione può utilmente essere impostata, perciò, come ricerca, nella quale lo psicologo assume il ruolo di raccoglitore di storie e “curatore editoriale” dei contenuti proposti. Sarà poi la rilettura di questi a offrire l’opportunità di distanziarsene, cogliendoli prospetticamente.

Lo psicologo ricercatore, eventualmente coadiuvato da collaboratori giovani e motivati, preparati all’uopo ma non troppo professionalizzati, curerà allora, presso organizzazioni, associazioni o gruppi, una raccolta di “interviste” che legheranno le tematiche da indagare alle vicende biografiche e al sentire dei singoli.
Il metodo della ricerca (più esattamente della “ricerca intervento”) è stato da me applicato, nello spazio di più di un decennio, in diversi contesti: quartieri cittadini o piccoli comuni; due comunità terapeutiche; una associazione di disabili; alcune associazioni di volontariato; un gruppo di disoccupati facenti capo al sindacato; un gruppo di donne in ricollocazione lavorativa; un gruppo di donne straniere dedite al lavoro di cura; un gruppo di mediatori culturali; una ONG.

Ho dato a questa metodologia il nome di “ricerca-intervento a vertice formativo”. Essa si distingue, infatti, dalla ricerca tradazionale in quanto centrata sullo spazio dato alla possibilità di pensiero favorita dalla creazione narrativa.
Lo strumento utilizzato, il colloquio biografico, è concepito come strumento psicologico e clinico: attento cioè alla dinamica relazionale tra intervistatore e intervistato; al setting; all’atteggiamento esente da giudizio; alla regolazione dagli assunti della continua scoperta dell' alterità/reciprocità; al transfert; alla “restituzione” in itinere e finale (riformulazione, feed back) dei contenuti proposti la quale, evitando le interpretazioni (si tratta di un “semplice” riassunto), è tesa a sostenere il senso complessivo del materiale proposto.

Il colloquio così impostato consente agli intervistati di vivere una esperienza di “ascolto” totale, impossibile in situazioni quotidiane in cui la narrazione è inquinata dalla “conversazione”, le rappresentazioni preconcette, le resistenze dell’interlocutore ad essere avvicinati da contenuti scomodi.

Ruolo fondamentale di questa metodologia formativa è inoltre la restituzione di gruppo, in cui i formatori presentano alla organizzazione o ai gruppi coinvolti le “voci” che si sono espresse, eventualmente organizzzate in modo tematico.
Il processo formativo, la “formazione a pensare”, non sono tuttavia mai immediati, né esenti da contraddizioni. Più di una volta la dichiarazione di un cambiamento di prospettiva e decisioni prese in conformità con una nuova consapevolezza ci è giunta a distanza di anni. Ciò che tuttavia viene colto sempre dai partecipanti è l’effetto distanziamento favorito dalle voci che si sviluppano attorno a uno stesso oggetto; la debanalizzazione di ciò che sembra ovvio; il piacere di comporre una narrazione che conserva le specificità pur costituendo una corale; la soddisfazione di essere protagonisti e di comporre, insieme ad altri, una particolare “epica” degli eventi.

Lo strumento: la narrazione


Il concetto di narrazione rientra nell'idea bruneriana di "psicologia popolare". Gli "psicologi popolari", vale a dire chiunque partecipi di una certa cultura, organizza narrativamente la propria esperienza, strutturandola in conformità con i significati ad essa attribuiti. La narrazione, quindi, si sviluppa in quanto dialettica tra "stati del mondo percepiti e propri desideri, che si influenzano a vicenda" (Bruner,1992).
“L'esigenza narrativa, d'altra parte, nasce da una motivazione psicologica prima che estetica: la ricerca di un significato per comprendere la realtà e sottrarsi così alla ansiogena dimensione dell'ignoto.

La raccolta delle narrazioni attraverso il colloquio promuove inoltre la valorizzazione dell'esperienza del singolo in un processo di salvataggio dal sentimento della perdita del senso di sé in relazione agli altri, ma anche del significato della propria identità. La società post-moderna, o globalizzata, offre scarse occasioni per la condivisione delle narrazioni personali e collettive. Eppure, più esse vengono esplicitate, condivise, contrattate, più sono ricchi da un lato la vita sociale, dall'altro il proprio "teatro personale", vale a dire il senso di esserci, il proprio valore come persona”. (Cuniberti P., Fenoglio, Occhionero G., 2001)

Alcune osservazioni in coda


Si è da qualche tempo diffusa anche in Europa una corrente chiamata “Narrative Therapy”, che si propone di essere di utilità alle vittime di un trauma.
Perchè si possa realizzare una condizione di autentica “formatività”, è tuttavia indispensabile che lo psicologo funga davvero da “terzo” nella relazione tra le parti in gioco, per favorire l’interrogazione, l’incertezza, il confronto e, attraverso questi, la nascita del pensiero
Da quanto ho appena illustrato inviterei quindia coloro che fossero interessati alle teorie narrative e alla loro applicazione ad usare molta cautela. Raccontare non è necessariamente teraputico, e il colloquio biografico richiede piena consapevolezza degli strumenti clinici impiegati….
Naturalmente il dibattito, specie se sulla base di esperienze, è opportuno e gradito.

Maria Teresa Fenoglio
Psicologi per i Popoli-Torino


Bibliografia

Bion W.R.(1961), trad.it Esperienze nei gruppi, Armando, Roma 1971
Bion W.R.(1963), trad.it. Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma 1972
Bruner J.(1991), trad.it. La ricerca del significato, Bollati Borighieri, Torino 1992
Capello C. (2001), Il sé e l’altro nella scrittura autobiografica, Bollati Boringhieri, Torino 2001
Carli R., Trasformazione e cambiamento, (1976)in “Archivio di Psicologia, Psichiatria e Neurologia”, 1-2,
Carli R., Paniccia R.M., La cultura locale come organizzatore delle relazioni, sito internet spsonline.it/introCultura.htm#culturalocale
Cuniberti P., Fenoglio, Occhionero G, (2001) Psicologia clinica nella comunità: l’ esperienza di inserimento di un gruppo appartamento per pazienti psichiatrici in un quartiere cittadino, Asti
Fenoglio M.T., Franceschetti G.C. (1996), Albre, storie nate o cresciute sulle rive della Stura, Il Segnalibro, Torino
Fenoglio M.T., Franceschetti G.C., Giannini B., Olivero M (1998)., Tra le anse del grande fiume, voci e luoghi di La Loggia, Il Segnalibro, Torino
Fenoglio M.T., Identità nelle periferie: un contributo psicologico, in: “Appunti di politica territoriale”, Celid,Torino 2000
Kaneklin C., Scaratti G (1998), Formazione e narrazione, Cortina, Milano
Lorenzetti,(1992)La dimensione estetica dell'esperienza, Il Mulino, Bologna
Martini G.(1998), Ermeneutica e narrazione, Bollati Boringhieri, Torino
Ricoeur P.(1965), trad.it. Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1967
Ricoeur P,(1988) La componente narrativa della psicoanalisi, Metaxù, vol.5

3 commenti:

Anonimo ha detto...

A proposito di formazione
Torino, 23 agosto 2006
E’ indubbio che la domanda di psicologia che in questi anni è arrivata a Psicologi per i Popoli dalla protezione Civile e altre organizzazioni di volontariato è stata in prima istanza domanda di formazione.
Da una analisi per ora non sistematica delle domande pervenuteci, risulta che essa in parte discende dalla consapevolezza di non aver fino ad oggi affrontato adeguatamente il tema delle reazioni psicologiche di vittime e soccorritori in emergenza; in parte però appare il frutto di un desiderio di avvicinarsi a una tematica coinvolgente e scottante garantendosi la dovuta “distanza di sicurezza”.
Questa distanza, che può certamente sottintendere una specifica resistenza, va tuttavia a mio avviso considerata come un segnale importante di ciò che l’emergenza rappresenta per i soggetti che ci contattano, sul piano sia emotivo che culturale.
La richiesta della distanza va presa perciò molto sul serio, rispettata nella sua sostanza, e sviluppata in un avvicinamento graduale atto a favorire una reciproca conoscenza e fiducia. La domanda di corsi di formazione, quindi, va a mio avviso accolta ma non enfatizzata come esperienza di “docenza di aula”. Credo invece utile cogliere queste occasioni per porre ascolto a ciò che i partecipanti vogliono esprimere, senza fretta di sovrapporre ai contenuti che i partecipanti propongono schematizzazioni di varia natura.
Credo sia importante muoverci in equilibrio tra gli opposti pericoli del troppo silenzio, che può venir letto come atteggiamento profetico detentore di potere, e del troppo “parlato”, che rischia di saturare e ingessare l’incontro fornendo “risposte” preconfezionate.
Del resto la “teoria della formazione” poggia sugli assunti bioniani di “formazione a pensare”: il lavoro formativo consente ai partecipanti di “tenere un discorso” sulle proprie esperienze, grazie a questo distanziarsene aprendosi alla possibilità di “immaginarsi diversi”. Si tratta quindi di un processo che, anche se si può avvalere di lezioni frontali, non si identifica con queste, né con una generica “trasmissione attiva” di contenuti.
Nel corso della mia attività professionale come formatrice ho tuttavia constatato come la situazione di “aula”, con i suoi tempi concentrati, l’enfasi sulla parola, la dinamica del gruppo, ecc. non sempre è ben tollerata dai partecipanti, dai quali viene avanzata prima di tutto una domanda di conferma e sostegno alle proprie scelte, più che di “cambiamento” a fronte di vere e proprie difficoltà conclamate. Sarebbe tuttavia riduttivo ricondurre questo tipo di domanda alla semplice richiesta di approvazione narcisistica: ciò che sembra motivare molte persone a partecipare a un corso di formazione sembra piuttosto il desiderio di tradurre a un terzo, di raccontare all’interno di uno spazio dedicato una esperienza che non ha ancora trovato una occasione per dirsi.
La formazione può utilmente essere impostata, perciò, come ricerca, nella quale lo psicologo assume il ruolo di raccoglitore di storie e “curatore editoriale” dei contenuti proposti. Sarà poi la rilettura di questi a offrire l’opportunità di distanziarsene, cogliendoli prospetticamente.
Lo psicologo ricercatore, eventualmente coadiuvato da collaboratori giovani e motivati, preparati all’uopo ma non troppo professionalizzati, curerà allora, presso organizzazioni, associazioni o gruppi, una raccolta di “interviste” che legheranno le tematiche da indagare alle vicende biografiche e al sentire dei singoli.
Il metodo della ricerca (più esattamente della “ricerca intervento”) è stato da me applicato, nello spazio di più di un decennio, in diversi contesti: quartieri cittadini o piccoli comuni; due comunità terapeutiche; una associazione di disabili; alcune associazioni di volontariato; un gruppo di disoccupati facenti capo al sindacato; un gruppo di donne in ricollocazione lavorativa; un gruppo di donne straniere dedite al lavoro di cura; un gruppo di mediatori culturali; una ONG.
Ho dato a questa metodologia il nome di “ricerca-intervento a vertice formativo”. Essa si distingue, infatti, dalla ricerca tradazionale in quanto centrata sullo spazio dato alla possibilità di pensiero favorita dalla creazione narrativa.
Lo strumento utilizzato, il colloquio biografico, è concepito come strumento psicologico e clinico: attento cioè alla dinamica relazionale tra intervistatore e intervistato; al setting; all’atteggiamento esente da giudizio; alla regolazione dagli assunti della continua scoperta dell' alterità/reciprocità; al transfert; alla “restituzione” in itinere e finale (riformulazione, feed back) dei contenuti proposti la quale, evitando le interpretazioni (si tratta di un “semplice” riassunto), è tesa a sostenere il senso complessivo del materiale proposto.
Il colloquio così impostato consente agli intervistati di vivere una esperienza di “ascolto” totale, impossibile in situazioni quotidiane in cui la narrazione è inquinata dalla “conversazione”, le rappresentazioni preconcette, le resistenze dell’interlocutore ad essere avvicinati da contenuti scomodi.
Ruolo fondamentale di questa metodologia formativa è inoltre la restituzione di gruppo, in cui i formatori presentano alla organizzazione o ai gruppi coinvolti le “voci” che si sono espresse, eventualmente organizzzate in modo tematico.
Il processo formativo, la “formazione a pensare”, non sono tuttavia mai immediati, né esenti da contraddizioni. Più di una volta la dichiarazione di un cambiamento di prospettiva e decisioni prese in conformità con una nuova consapevolezza ci è giunta a distanza di anni. Ciò che tuttavia viene colto sempre dai partecipanti è l’effetto distanziamento favorito dalle voci che si sviluppano attorno a uno stesso oggetto; la debanalizzazione di ciò che sembra ovvio; il piacere di comporre una narrazione che conserva le specificità pur costituendo una corale; la soddisfazione di essere protagonisti e di comporre, insieme ad altri, una particolare “epica” degli eventi.
Lo strumento: la narrazione
Il concetto di narrazione rientra nell'idea bruneriana di "psicologia popolare". Gli "psicologi popolari", vale a dire chiunque partecipi di una certa cultura, organizza narrativamente la propria esperienza, strutturandola in conformità con i significati ad essa attribuiti. La narrazione, quindi, si sviluppa in quanto dialettica tra "stati del mondo percepiti e propri desideri, che si influenzano a vicenda" (Bruner,1992).
“L'esigenza narrativa, d'altra parte, nasce da una motivazione psicologica prima che estetica: la ricerca di un significato per comprendere la realtà e sottrarsi così alla ansiogena dimensione dell'ignoto.
La raccolta delle narrazioni attraverso il colloquio promuove inoltre la valorizzazione dell'esperienza del singolo in un processo di salvataggio dal sentimento della perdita del senso di sé in relazione agli altri, ma anche del significato della propria identità. La società post-moderna, o globalizzata, offre scarse occasioni per la condivisione delle narrazioni personali e collettive. Eppure, più esse vengono esplicitate, condivise, contrattate, più sono ricchi da un lato la vita sociale, dall'altro il proprio "teatro personale", vale a dire il senso di esserci, il proprio valore come persona”. (Cuniberti P., Fenoglio, Occhionero G., 2001)
Alcune osservazioni in coda
Si è da qualche tempo diffusa anche in Europa una corrente chiamata “Narrative Therapy”, che si propone di essere di utilità alle vittime di un trauma.
Perchè si possa realizzare una condizione di autentica “formatività”, è tuttavia indispensabile che lo psicologo funga davvero da “terzo” nella relazione tra le parti in gioco, per favorire l’interrogazione, l’incertezza, il confronto e, attraverso questi, la nascita del pensiero
Da quanto ho appena illustrato inviterei quindia coloro che fossero interessati alle teorie narrative e alla loro applicazione ad usare molta cautela. Raccontare non è necessariamente teraputico, e il colloquio biografico richiede piena consapevolezza degli strumenti clinici impiegati….
Naturalmente il dibattito, specie se sulla base di esperienze, è opportuno e gradito
Maria Teresa Fenoglio
Psicologi per i Popoli-Torino


Bibliografia

Bion W.R.(1961), trad.it Esperienze nei gruppi, Armando, Roma 1971
Bion W.R.(1963), trad.it. Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma 1972
Bruner J.(1991), trad.it. La ricerca del significato, Bollati Borighieri, Torino 1992
Capello C. (2001), Il sé e l’altro nella scrittura autobiografica, Bollati Boringhieri, Torino 2001
Carli R., Trasformazione e cambiamento, (1976)in “Archivio di Psicologia, Psichiatria e Neurologia”, 1-2,
Carli R., Paniccia R.M., La cultura locale come organizzatore delle relazioni, sito internet spsonline.it/introCultura.htm#culturalocale
Cuniberti P., Fenoglio, Occhionero G, (2001) Psicologia clinica nella comunità: l’ esperienza di inserimento di un gruppo appartamento per pazienti psichiatrici in un quartiere cittadino, Asti
Fenoglio M.T., Franceschetti G.C. (1996), Albre, storie nate o cresciute sulle rive della Stura, Il Segnalibro, Torino
Fenoglio M.T., Franceschetti G.C., Giannini B., Olivero M (1998)., Tra le anse del grande fiume, voci e luoghi di La Loggia, Il Segnalibro, Torino
Fenoglio M.T., Identità nelle periferie: un contributo psicologico, in: “Appunti di politica territoriale”, Celid,Torino 2000
Kaneklin C., Scaratti G (1998), Formazione e narrazione, Cortina, Milano
Lorenzetti,(1992)La dimensione estetica dell'esperienza, Il Mulino, Bologna
Martini G.(1998), Ermeneutica e narrazione, Bollati Boringhieri, Torino
Ricoeur P.(1965), trad.it. Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1967
Ricoeur P,(1988) La componente narrativa della psicoanalisi, Metaxù, vol.5, 7-19,

Anonimo ha detto...

solo una piccolissima nota che non ha nulla a che vedere con i contenuti, ma intende porre fine ad un fraintendimento che si sta trascinando ormai da settimane: il conduttore di questo laboratorio si chiama GIAMPAOLO LIBARDI e non "Gianfranco"! Arrivederci a venerdì

Luca Pezzullo ha detto...

Chiedo scusa al collega, ho già provveduto a correggere l'errore.

Saluti,
Luca Pezzullo