29 marzo 2011

Ancora sul Giappone, ed alcuni approfondimenti tecnici

La significativa, pessima, evoluzione della questione Giapponese pone nuovi interrogativi, rispetto a quello che poteva sembrare lo scenario delle prime ore.

La complessità dei NaTechs, le loro difficoltà gestionali, e le loro enormi implicazioni a livello di pianificazione e prevenzione del rischio territoriale, sono stati ampiamente confermati in quello che purtroppo diverrà sicuramente IL caso di studio per eccellenza per i decenni a venire in questo settore.

Consiglio, per una buona introduzione tecnica al tema dei NaTech, l'ampia sintesi del JRC (ottima, come è del resto sempre ottimo il livello qualitativo medio della ricerca e della documentazione dell'Istituzione europea di Ispra).

La "risk communication", invece, sembra essersi degradata significativamente da parte degli attori istituzionali e dagli stakeholders tecnici. La TEPCO purtroppo ha assunto un atteggiamento estremamente difensivo, ed il governo a sua volta si è trovato a fare da "catena di trasmissione" di informazioni spesso smentite poche ore dopo: il comportamento negativo classico, che causa - in poche ore o giorni - la deplezione di tutto l'essenziale patrimonio di "Trust" accumulato davanti al corpo sociale in mesi o anni.

Il problema è che per cercare di gestire in maniera tranquillizzante - in modo fallimentare - poche ore di processo comunicativo pubblico, così facendo si va a ipotecare l'intera affidabilità dei messaggi successivi e della veicolazione informativa nei giorni/settimane successiva, con rapido degrado della fiducia pubblica nei decisori ed attori istituzionali.

Un autogoal strategico di comunicazione del rischio, che si è visto troppe volte in questi anni in tutto il mondo, e che sembra ripetersi, deprimentemente, anche in contesti come quello giapponese, in cui la dimensione della previsione/prevenzione è ai massimi livelli internazionali.

Sul tema, ampiamente studiato dalla psicologia sociale dell'emergenza, rimando all'interessante approfondimento tecnico del Department of Energy Statunitense:
(ma si trovano numerosi riferimenti in letteratura scientifica, basta fare una breve review con Google Scholar).

Resilienza e coping di comunità
: dopo i primi giorni di emergenza, dove la solida preparedness pregressa e la disciplina sociale del paese hanno retto bene, si è diffusa molta insicurezza a livello collettivo (da un lato - ovviamente -, per la marcata evolutività del rischio di contaminazione da radionuclidi, ma dall'altro anche a seguito dei processi di risk communication malgestiti con l'evolversi della situazione, e della relativa perdita di trust). Questo potrebbe avere effetti a medio-lungo termine sulla resilienza di comunità, soprattutto adesso che sembra che siano state riscontrate le prime fughe di Plutonio dall'impianto (con tutti i "fantasmi" e le profonde rappresentazioni sociali di rischio che questo può ovviamente attivare a livello comunitario, aldilà della generica rassicurazione "di default" dell'istituzione di riferimento).

Luca Pezzullo

15 marzo 2011

Giappone

E’ difficile analizzare tutte le complesse, enormi implicazioni – anche per la psicologia dell’emergenza, e per lo studio dei processi psicologici e psicosociali – degli eventi tragici che stanno avvenendo in Giappone.

La contemporanea attuazione di gravi rischi naturali e tecnologici (quelli che nei disaster studies sono chiamati, da anni, NATECH, Natural-induced Technological Disasters) sta configurando un evento catastrofico di proporzioni epocali, che ha e avrà enormi impatti a lungo termine sociali, economici, culturali, psicologici.

Uno dei più grandi terremoti della storia (9 Richter significa infatti – anche se è difficile solo immaginarlo – un’intensità sismica di quasi 27.000 volte, ventisettemila, di quella del Sisma dell’Aquila) ha causato un gigantesco maremoto su un fronte di 300 km, che ha sua volta ha fatto saltare i sistemi di sicurezza di una complessa serie di impianti nucleari già danneggiati dal sisma.

Difficile immaginare la complessità gestionale di un evento macroemergenziale come questo, che mette ovviamente a dura prova anche un sistema di emergency management avanzatissimo e completo come quello giapponese.
Sembra uno di quegli scenari "WTC" (Worst-Case Scenarios) che, quando vengono utilizzati nelle simulazioni degli enti di soccorso, vengono a volte liquidati da molti soccorritori stessi come "state esagerando, dai".

E invece, questo LPHC Event (Low-Probability, High-Consequences) è avvenuto, e sta avendo conseguenze ancor più ampie e gravi di quanto si potesse pensare.

Alcune osservazioni di base si impongono, e si potranno sviluppare in seguito, con l’evoluzione della situazione.

In primo luogo, la popolazione locale ha reagito fin dal primo momento in maniera straordinaria, adattativa e resiliente. L’enfasi nipponica, quasi ossessiva, sulla costruzione di una “cultura della sicurezza” davanti al rischio sismico (elevatissimo da sempre, in Giappone) ha permesso probabilmente di salvare centinaia di migliaia di vite.

Costruzioni e infrastrutture costruite con grande rigore e materiali di altissima qualità, secondo alcuni dei criteri antisismici più restrittivi del pianeta; una popolazione pronta, preparata e profondamente sensibilizzata al problema della sicurezza, dai bambini agli anziani; una “cultura dell’emergenza” diffusa in tutte le realtà organizzative; un’enfasi unica al mondo sulla prevenzione/preparazione al sisma (con esercitazioni continue, addestramenti e controlli); sistemi di allerta, early warning, e coordinamento avanzati; una rete di soccorso complessa e articolata hanno permesso di ridurre in maniera enorme quello che poteva essere l’impatto potenziale di un multievento complesso di simile entità, magnitudine, diffusione spaziale, articolazione funzionale.

Una situazione del genere in altri paesi avrebbe verosimilmente creato danni estremamente più diffusi.

L’empowerment e la resilienza di comunità sono altri due elementi essenziali, di forte interesse per una comprensione dei processi psicologico-emergenziali coinvolti nella situazione in progress.
La grande disciplina della popolazione nelle aree affette, la sua “preparazione” (anche psicologica) all’emergenza, lo stimolo all’attivazione delle risorse locali in congiunzione con quelle nazionali e sovranazionali sono fattori fondamentali in merito a quello che stiamo vedendo a livello di emergency management sul territorio, ed ha permesso un forte sostegno ad azioni e comportamenti finalistici, strutturati e strutturanti di tipo auto- ed eteroprotettivo nella collettività sociale.

Sul tema della comunicazione sociale del rischio, seppur con molte critiche (inevitabili, in una situazione del genere), il governo sembra comunque aver assunto una logica informativa “sufficientemente” adeguata a quelli che dovrebbero essere gli standard ideali in situazione emergenziale, con informazioni continue ed in tempo reale condivise con la popolazione.

Altri punti importanti emergono palesemente.

Da un lato, il “fantasma delle radiazioni”, è un tipo di pericolo che ovviamente tutte le ricerche in ambito di “risk perception” hanno sempre considerato essere tra i più forti, anche perché ha proprio quelle specifiche “caratteristiche funzionali” che la tradizione di ricerca sperimentale del cosiddetto “paradigma psicometrico” (Fischhoff, Slovic, Finucane, etc.) ha mostrato essere correlate alla massima varianza nella rappresentazione di maggiore rischiosità: ovvero, primariamente i fattori di “Dread”, e poi quelli di “invisibilità”, “non controllabilità” e (secondo Sjoberg) di “Innaturality” dello stimolo pericoloso.

Ma questa analisi di tipo “cognitivo” non può dimenticarsi della dimensione simbolico-rappresentativa ed affettiva profonda del pericolo nucleare che si materializza per una popolazione come quella Giapponese, che del “nucleare” e delle “radiazioni” ha ovviamente una fortissima stratificazione rappresentativa *reale* dopo la seconda guerra mondiale. E’ un “fantasma” che, in quel contesto, può quindi fare addirittura molti più danni psichici e psicosociali che in qualunque altro paese del mondo.

Altro punto, su un altro versante, è quello relativo ai processi protettivi di empowerment sociale diffuso, che certe modalità di condivisione informativa (anche legate alle nuove tecnologie 2.0) potrebbero aver contribuito ad attivare in strati significativi della popolazione. Ma di questo cercherò di scrivere in un post successivo.