24 agosto 2016

Terremoti e Cultura della Sicurezza: una sfida impossibile?

[Terremoti e Cultura della Sicurezza: una sfida impossibile?]

Il terremoto di Amatrice riporta a tutti la memoria al sisma, analogo per magnitudine e contesto geografico, de L'Aquila. La differenza principale è rappresentata dalla struttura della serie sismica, dalle profondità degli ipocentri e dalla diversa urbanizzazione: L'Aquila centro urbano molto abitato, l'area del Reatino con una urbanizzazione molto più diffusa e leggera.

Se davanti ai regolari terremoti che colpiscono il nostro paese la paura è normale e fisiologica, rimane meno fisiologica la situazione della preparazione e della "cultura" dell'emergenza in Italia.

Nonostante il nostro paese sia notoriamente uno dei pochi al mondo ad essere esposto praticamente a qualunque tipo di disastro naturale possibile (terremoti, inondazioni, dissesti, tsunami, trombe d'aria, frane, subsidenza, vulcani...), e vi sia ampia conoscenza di aree e fenomeni a rischio, il livello medio di preparazione della cittadinanza rispetto alle basilari misure di prevenzione e protezione rimane ancora troppo basso.

Molti residenti di aree a rischio non sanno cosa fare davanti ai principali tipi di rischio; quasi nessuno predispone zainetti di emergenza o contatti fuori area; raramente si parla ai bambini di come comportarsi se succede qualcosa. La conoscenza dei Piani di Protezione Civile locale è minima, nella popolazione. Pochissimi "esterni" al Sistema di Protezione Civile hanno anche solo un'idea di come funzioni, come sia organizzata, come si possa collaborare utilmente ai soccorsi.

Ancora più grave, troppo spesso si commettono leggerezze imperdonabili nel settore edilizio od urbanistico, sentendosi magari "furbi": costruzioni in aree golenali a rischio alluvionale, variazioni edilizie che non rispettano la normativa antisismica, utilizzo di materiali edili scadenti "per risparmiare" (con strizzatina d'occhio tra costruttore e proprietario - che sarà però poi il primo a lamentarsi dei danni in caso di terremoto). Ancora poco o per nulla diffuse forme assicurative contro danni da calamità naturali, ancora troppe bufale pseudoscientifiche che circolano in merito ai terremoti.

Ogni tre-quattro anni abbiamo un'emergenza significativa in Italia; l'attenzione pubblica rimane alta alcune settimane, poi tutto va nel dimenticatoio fino alla tragedia successiva.

I processi sociali e psicologici che ne stanno alla base sono conosciuti, legati a dinamiche di risk perception e risk communication ben note, ad una serie di bias cognitivi e a processi di costruzione di significato collettivo che sono funzionali per contenere l'ansia nel breve termine, ma spesso disfunzionali per la protezione "reale" a lungo termine. Su questo, il contributo della psicologia allo sviluppo di cultura stabile di "prevenzione" nel tempo, e non solo di intervento di soccorso nell'evento acuto, è fondamentale.

Insomma, se il Sistema di Protezione Civile nazionale negli ultimi 20 anni ha fatto tanto, sviluppando un insieme di pratiche, procedure, strutture organizzative territoriali molto diffuse (ogni paese ha ormai un nucleo di Protezione Civile), la "cultura della sicurezza" diffusa purtroppo arranca ancora molto.

Ben vengano quindi iniziative importanti, come quella di "Terremoto, io non rischio" promossa proprio dal Dipartimento di Protezione Civile nazionale, e che negli anni ha portato nelle piazze di tutta Italia eventi di formazione, informazione e sensibilizzazione molto ben organizzati (con il concorso di molto volontari qualificati di tutta Italia; segnalo il contributo particolare dato da "Psicologi per i Popoli"); ma il problema è forse più ampio.

L'ancora troppo frequente atteggiamento "fatalista, furbacchione e menefreghista prima - aggressivamente confuso e rivendicativo dopo" è ancora troppo tipico davanti ai rischi ed emergenze. Eppure basta relativamente poco, per cambiare mentalità; e soprattutto, in un territorio come quello italiano, non abbiamo scelta se non di farlo. Su questo i media, le istituzioni, e le scienze sociali (psicologia sociale e di comunità in primis) possono e devono fare la loro parte.