29 dicembre 2005

Tsunami 2004, l'evoluzione della Psicologia dell'Emergenza Italiana

Il 26 dicembre 2004 lo Tsunami asiatico si abbatteva sulle coste di numerosi paesi affacciati sull'Oceano Indiano, causando oltre 230.000 vittime e circa due milioni di sfollati. I danni all'economia locale, soprattutto in alcune aree già duramente provate dalle lunghe guerre di indipendenza (Sri Lanka, Sumatra), sono stati gravissimi.
Un ottimo repertorio di risorse informative sullo Tsunami del 2004 è questo.

Al contempo, la solidarietà internazionale è stata enorme e si è prodotta in una sorta di forte "atto compensatorio", con un gigantesco afflusso di donazioni, attivazione di progetti importanti, collaborazioni internazionali.
Anche molti psicologi italiani sono stati impegnati dall'emergenza, sia in patria (con il supporto diretto, nelle fasi del rimpatrio, ai sopravvissuti ed ai parenti delle vittime; a Malpensa i colleghi del Servizio Psicologico d'Emergenza dell'OPL/Protezione Civile Lombardia, coordinato da Rita Fioravanzo, ed a Roma i colleghi del Dipartimento ed altri), sia recandosi in loco (in particolare in Sri Lanka), per collaborare a molti tipi di progetto psicosociale finalizzati al sostegno della popolazione.
L'Università Cattolica di Milano (ed il gruppo di Fabio Sbattella in particolare) ha operato a lungo e con impegno su questo versante; molti colleghi sono poi partiti volontariamente per dare il loro contributo e, dato assai importante, per la prima volta il Dipartimento della Protezione Civile Nazionale ha deciso di inviare sul campo una psicologa, per verificare direttamente la qualità degli interventi psicosociali implementati dalle varie associazioni ed ONG.

Riflettiamoci bene: sono stati interventi numerosi, interventi organizzati, interventi verificati e qualificati, condotti quasi sempre da psicologi non certo "improvvisati" ma anzi con un robusto background formativo nel settore dell'Emergenza. In questo frangente, sia nella fase acuta che nei "meno visibili" ma non meno difficili mesi successivi, gli psicologi dell'emergenza italiani hanno, nella sostanza, operato tanto e bene, ad una scala forse mai raggiunta in passato.

A ripensare all'embrionale, incerta, psicologia dell'emergenza italiana di una decina di anni fa, si ha finalmente la sensazione di essersi avviati, seppur ancora un pò lentamente, sulla strada giusta...

Un saluto ed un augurio di buon 2006 !
Luca

09 novembre 2005

Attentati e psicologi dell'emergenza

Sfuggo brevemente al mio "dovere", che in queste settimane sarebbe concentrarsi esclusivamente su una monografia sui disastri idrici che devo concludere entro breve… il materiale su New Orleans è lì, quasi risistemato, ma anche quello è ancora in stand-by per via delle mie scadenze lavorative. A breve arriverà, ma per adesso preferisco approfittare di queste brevi pause per parlare brevemente d'altro.

Si parla in questo periodo di possibili attentati terroristici anche in Italia; dopo Madrid e dopo Londra, si parla insistentemente di una grande città italiana come futuro, possibile, obbiettivo del terrorismo. Difficile sapere se e quando avverrà un evento del genere, ma, per quanto ci riguarda, ci si può chiedere se gli psicologi dell'emergenza italiani siano "preparati" per un evento del genere. "Essere preparati" e "attentato terroristico", messi nella stessa frase, sembrano un'impossibilità logica. Effettivamente, l'esperienza di altre città (Madrid in primis) insegna che "essere preparati" è praticamente impossibile.
Anche per gli psicologi, il lavoro in un contesto post-attentato riveste significati ed emozioni molto forti, che inevitabilmente non possono non invadere il campo della relazione di sostegno peritraumatico. Se già il lavoro in emergenza comporta la necessità "ordinaria" di elaborare carichi emotivi a volte molto intensi, il lavoro in uno scenario di "violenza organizzata di massa" impone allo psicologo l'incontro con un'ulteriore livello di emozioni profonde e magmatiche, che animano "fantasmi" individuali e sociali di difficile elaborazione.
Lo psicologo è parte della popolazione colpita, e nelle ore e giorni immediatamente successivi ad un grave attentato, che magari ha colpito proprio la sua città, le sue emozioni ed i suoi vissuti si muovono su due piani: quello di soccorritore che lavora con persone che hanno subito una forte traumatizzazione (quelle derivate da violenze terroristiche sono del resto tra le più difficili da elaborare), e quello di cittadino che sente, inevitabilmente, violato il suo personale senso di sicurezza individuale e collettiva.

Basta a questo proposito rileggere il lucidissimo, stimolante, articolo di John Jones, uno degli psicologi che coordinarono gli interventi clinici dopo l'attentato di Oklahoma City, nel 1995 (un camion-bomba causò 169 morti), reperibile su www.psychomedia.it, nella sezione "Società, Trauma, Solidarietà".
La sua riflessione critica sull'inevitabilità, per il terapeuta, del dover mettere in gioco i propri personali vissuti emotivi, quando l'attentato colpisce al cuore la stessa comunità sociale in cui il terapeuta vive e lavora, può fornire molti spunti di riflessione agli psicologi che purtroppo potrebbero trovarsi a vivere una situazione del genere in futuro.

A Madrid ci sono infatti stati diversi casi di psicologi che, accorsi per portare aiuto, sono stati in breve travolti dalle proprie emozioni personali di paura e confusione, ovviamente molto forti nelle ore successive all'attentato, e brutalmente riattivate dal contatto relazionale con le vittime ferite o i parenti dei deceduti. Questo ha portato, in alcuni (pochi) casi, a gravi problemi nel rapporto con i parenti, ed alla creazione di situazioni molto difficili e dolorose anche per alcune vittime.
Fortunatamente, nella grande maggioranza dei casi i colleghi spagnoli hanno lavorato con determinazione e professionalità, ottenendo comunque risultati importanti nell'opera di sostegno alla popolazione ed alle vittime.

Quindi, la riflessione teorico-clinica, la preparazione personale, e soprattutto, l'organizzazione di "Servizi" di psicologia dell'emergenza che permettano la costituzione una "struttura a rete" di sostegno reciproco tra gli psicologi coinvolti rappresentano degli assetti fondamentali, per l'intervento in tali contesti; fondamentale è poi il ruolo delle Esercitazioni specifiche di Protezione Civile per eventi di questo tipo.
Quelle tenute questo autunno in varie città d'Italia hanno visto la partecipazione di diversi nuclei e squadre organizzate di psicologi dell'emergenza (ad esempio, il Servizio Psicologico di Emergenza della P.C. - Regione Lombardia / OPL, in quella di Milano; dei gruppi convenzionati a quelle di Roma e di Napoli; di consulenti psicologi a quella internazionale di Catania, etc.). Nel complesso, l'efficienza e la funzionalità dei gruppi di psicologi dell'emergenza italiani si è dimostrata più che buona. Certamente, le simulazioni non possono mai garantire che il "comportamento reale" sia equivalente, ma la situazione italiana del settore, anche solo rispetto a qualche anno fa, è radicalmente migliorata: adesso esistono Servizi riconosciuti e convenzionati con enti pubblici; patrimoni di pratiche che iniziano a diffondersi nella comunità di settore; corsi universitari e post-universitari di buon livello; associazioni professionali molto attive e diffuse sul territorio; gruppi di lavoro ufficiali degli Ordini degli Psicologi, etc.
Se si pensa a "come eravamo messi" anche solo fino a otto o dieci anni fa, non si può non riconoscere l'enorme evoluzione del panorama italiano di settore in questi pochi anni.
Anche se, sicuramente, rimane da fare ancora molto (moltissimo, per certi versi).

Un saluto a tutti,
Luca

08 ottobre 2005

Piccole scuse...

Mi scuso per il ritardo nei post in questo periodo; mi sono anche arrivate un paio di email che mi chiedevano informazioni sul prossimo aggiornamento relativo a New Orleans, promesso qualche tempo fa. Purtroppo questo periodo per me è veramente frenetico, e fatico un pò ad aggiornare regolarmente il Blog; entro una o due settimane gli aggiornamenti riprenderanno però con maggior frequenza e regolarità :-D

Su New Orleans, una piccola osservazione: si parla spesso di "Empowerment di Comunità", ovvero il rendere maggiormente "autoefficace" ed autonoma una Comunità nella gestione delle situazioni di emergenza che la coinvolgono. Intorno ai fenomeni di New Orleans, che saranno oggetto di un approfondimento a breve, si sono sviluppati molti processi autorganizzati di empowerment, di grande rilievo pratico e di forte utilità psicosociale per chi li ha implementati.

La nascita di numerosi siti di questo tipo:

Katrina Survivors

ovvero di vere e proprie forme di "autoaiuto di Comunità", rappresenta un piccolo ma interessante esempio di quello che molti teorici dei disastri sostengono da tempo (e che gli psicologi faticano un pò ad accettare): le comunità sono spesso in grado di aiutarsi da sole, ed il ruolo dei soccorritori non deve essere quello di far "regredire a vittime impotenti" quelle che in realtà sono persone e gruppi attivi, efficaci e facilmente coinvolgibili negli sforzi di soccorso. L'azione di soccorso, e quella degli psicologi in particolare, diviene quindi un'azione "catalitica" psicosociale, di stimolo ed attivazione dei processi di autoguarigione ed autosoccorso della comunità, dei gruppi e delle persone colpite da un evento estremo.

Ma approfondiremo meglio questo discorso con il contributo su Katrina e New Orleans, che spero di completare e pubblicare presto...

Un saluto,
Luca

19 settembre 2005

1.000 visite, partecipazione e New Orleans

Il blog ha superato le mille visite; il risultato mi fa indubbiamente molto piacere !
Invito quindi tutti coloro che ogni tanto leggono il blog a inserire i loro commenti e le loro riflessioni sui temi affrontati: si può fare, molto rapidamente, cliccando sulla voce "comments" che si trova in fondo ad ogni post. Mi piacerebbe davvero che il blog diventasse un luogo di dialogo !

P.S.: A breve aggiungerò alcune riflessioni sugli avvenimenti di New Orleans, derivate anche dalle discussioni che ho avuto recentemente con alcuni psicologi ed altri operatori statunitensi che hanno lavorato nell'ambito dei soccorsi.

Un saluto,
Luca

01 settembre 2005

Bagdad

Giornata drammatica, quella di ieri.
816 morti, come numero temporaneo, a Bagdad; centinaia di morti in Mississippi e Louisiana, e New Orleans sommersa dalle acque, che hanno rotto gli argini urbani in diversi punti.

Sulla tragedia di Bagdad si possono fare solo alcune osservazioni: come spesso accade in situazioni del genere, il maggior numero di morti sono stati causati dalla folla in fuga, in preda al panico. Meno di una decina sarebbero infatti i morti dovuti agli attacchi mortaio contro i fedeli raccolti fuori dal tempio, mentre tutte le altre centinaia sono stati causati dal crollo del ponte e dallo schiacciamento avvenuto all'interno della gigantesca folla in fuga, composta da molte decine di migliaia di persone. Come accade in queste situazioni, la maggior parte dei decessi sono di donne e bambini: le persone più deboli, in generali, sono quelle che in mezzo alle pressioni violentissime di una grande folla in movimento sono meno in grado di stare in piedi. Scivolare verso il basso, in questi casi, significa essere rapidamente sommersi e calpestati. Il panico, facilitato dai "rumors" di attentatori suicidi nella folla, è scattato facilmente su un terreno psicosociale già "ben aperto" verso questo tipo di voci. Paradossalmente, nessun attentatore suicida avrebbe potuto uccidere con una sola carica di esplosivo tante persone…

La diffusione di voci, anche in questo caso, si è dimostrato essere un comportamento collettivo, che in una situazione confusa e complessa ha elicitato una risposta comportamentale automatica di fuga. Del resto, la pressione psicologica di una folla enorme sul singolo individuo è fortissima, ed è estremamente difficile rimanerne immuni. Provate ad immaginarvi stretti in mezzo ad una grandissima folla, assiepata a perdita d'occhio in una città come Bagdad, dove gli attentati sono all'ordine del giorno, proprio in un momento di grande tensione politica (sono i giorni delle tensioni tra sunniti e sciiti sull'approvazione della Costituzione); di colpo vengono sparati colpi di mortaio in un angolo lontano della folla, e poco dopo tutte le persone intorno a voi iniziano a muoversi, prima gradualmente e poi sempre più freneticamente, spingendovi da tutte le parti, con un potente movimento collettivo; da tutte le parti, inizia a passare di bocca in bocca l'allarme: bisogna scappare subito, perché ci sono degli attentatori lì vicino, che si sono infilati a poca distanza con potenti cariche esplosive. Anche volendo, non si può che seguire la massa, strattonati in tutte le direzioni, cercando solo di non rimanere schiacciati. Psicologicamente, è un'esperienza difficile, in cui si percepisce la completa perdita di controllo su quello che sta accadendo.
A livello della diffusione dei rumors, sarà molto difficile capire se è stato un processo sociale autonomo, fondato su processi euristici,o se è stata diffusa ad arte, come raffinata forma di "operazione psicologica", per creare il panico in una grande massa di persone. In questo caso, i terroristi avrebbero dimostrato una buona competenza negli strumenti classici dello psychological warfare e delle tecniche psicologiche di crowd control.

19 agosto 2005

Un altro paio di lanci di agenzia...

Appena recuperati in rete, a proposito della vicenda dell'ATR72:

"Alle 2.10 di domenica notte quando l'aereo atterra al «Falcone e Borsellino» non sanno ancora che figli, mariti e nipoti sono morti. Nessuno gli ha detto la verità. Un gruppo sale su un pullman, il secondo su un altro. Il primo è quello dei parenti che riabbracceranno i propri congiunti feriti negli ospedali, il secondo è quello del dolore. Quando arrivano all'Istituto di medicina legale del Policlinico, i parenti dei defunti dell'Atr 72 precipitato a Capo Gallo non sanno cosa li aspetta. E neppure i medici erano stati avvertiti che nessuno tra i parenti sapeva ancora la verità. La scopriranno subito dopo, quando i sanitari tolgono i veli dai cadaveri. Paolo Procaccianti, direttore del reparto di medicina legale, racconta la scomoda verità, poco prima del triste pellegrinaggio dei parenti nella camera ardente. «Non hanno detto a questa povera gente come stavano le cose - denuncia - Nessuno sapeva, pensavano di riabbracciare i propri cari e invece li hanno visti morti. E' stato uno choc, cui abbiamo dovuto rimediare con l'ausilio di un equipe di psicologi». Al dramma, poi, si è aggiunta la tragedia della famiglia di Raffaele Ditano, 32 anni, uno dei tre dispersi. «Gli abbiamo mostrato un cadavere - racconta Procaccianti - Quando lo hanno visto, si sono rassicurati: non era il loro Raffaele». Solo più tardi scopriranno che il papà di Maria Grazia La Catena di 11 anni, salva insieme alla madre Flora, probabilmente si trova in fondo al mare, a 1.200 metri di profondità e che difficilmente il suo corpo sarà recuperato." (Il Manifesto Online, 9/8/05).

Probabilmente nemmeno gli psicologi sapevano "chi sapeva cosa" in quella confusione.
Forse è per questo che (come indicato in altri lanci), alcuni avevano detto ripetutamente ai parenti dei morti di "sperare in un miracolo" ?

Ma il lungo lavoro svolto dagli psicologi, in condizioni non facili, è stato riconosciuto dai parenti delle vittime:
"Dopo l'omelia dell'arcivescovo di Bari, Francesco Cacucci, il toccante appello lanciato dalla zia di Barbara Baldacci. (...) La donna ha anche ricordato ''quegli eroi sconosciuti che qui e a Palermo ci sono stati vicini, quei medici, volontari, psicologi e assistenti sociali che ci hanno aiutato''". (AdnKronos)

ATR72

Alcune brevissimi spunti di riflessione sull'azione degli psicologi dopo l'incidente dell'ATR72.

ATTENZIONE:
quelle che seguono sono solo riflessioni personali, basate esclusivamente su fonti giornalistiche e lanci di agenzia nei giorni seguenti all'incidente dell'ATR72. Se qualche collega che ha partecipato all'intervento o è maggiormente informato dei fatti volesse completare o correggere quanto ho scritto, mi invii una mail: sarò ben felice di farlo.


L'intervento ha rappresentato un'importante occasione di attivazione e lavoro congiunto di diversi gruppi/unità di psicologia dell'emergenza. 20 Psicologi pugliesi e 25 siciliani, appartenenti a specifici gruppi organizzati per la gestione delle emergenze, si sono attivati già dalle prime ore del disastro, per continuare ininterrottamente la loro assistenza nei giorni successivi. La modalità di lavoro basata sui classici principi di outreaching/roaming ha fortemente caratterizzato l'intervento: gli psicologi si sono recati direttamente sul posto dell'evento ed hanno seguito vittime/parenti nelle varie sedi in cui si è articolato lo scenario operativo dell'emergenza (aeroporti, ospedali, obitori, chiese, etc.). I tempi di attivazione sono stati molto rapidi (meno di un paio d'ore), la continuità dell'intervento significativa (diversi giorni), la flessibilità operativa anche (gli psicologi pugliesi sono partiti con poche ore di preavviso con l'aereo che da Bari ha portato i parenti a Palermo; lì sono rimasti operativi per ulteriori 48 ore, coordinandosi con i colleghi siciliani).

Tra i principali problemi che sembra sia stato necessario affrontare, c'e' stata la forte necessità di coordinamento tra gruppi diversi: mentre i colleghi siciliani stavano seguendo i sopravvissuti, i colleghi pugliesi imbarcati sull'aereo seguivano i loro parenti; questo potrebbe diventare lo spunto per riflettere sulle migliori modalità di coordinamento tra gruppi territoriali diversi, che
spesso non hanno rapporti strutturali tra loro, in occasioni del genere. Ciò anche per ridurre il rischio di "moltiplicazione e sovrapposizione degli psicologi" in seguito al ricongiungimento delle famiglie (avendo così famiglie seguite
contemporaneamente dallo psicologo dell'emergenza "locale", dallo psicologo
dell'emergenza "arrivato a seguito dei parenti", e dallo psicologo strutturato dell'ospedale, ciascuno dei quali opera in autonomia con strumenti diversi). Questo è un problema già segnalato dalla letteratura anglosassone (si pensi a quanto segnalato da William Yule in seguito alla tragedia dell'Herald of Free Enterprise, quando sul luogo accorsero - disordinatamente - molti più psicologi che vittime, alcuni dei quali iniziarono a "contendersi" le vittime...), e l'unica soluzione possibile sembra essere lo sviluppo di protocolli comuni di intervento, e la costituzione di rapporti più frequenti e strutturati tra i vari gruppi di psicologi dell'emergenza operanti sul territorio.

(Attenzione ! La situazione dell'Herald of Free Enterprise non è nemmeno lontanamente analoga a quanto successo a Palermo, dove anzi i diversi gruppi sembrano aver lavorato abbastanza bene insieme: questo vuole essere solo uno spunto di riflessione relativo ad eventuali situazioni, analoghe ma molto meno strutturate, che si potrebbero venire a creare in futuro).


Un'altra problematica interessante è appunto quella logistica: gli psicologi pugliesi, sempre da quello che si riesce a capire dai giornali, sono stati allertati e sono arrivati in aereoporto, per poi partire nel giro di poche ore alla volta di Palermo (dove sono rimasti fino al rientro delle famiglie a Bari, due giorni dopo). L'utilità di avere sempre pronto il celebre "zaino dello psicologo", con un paio di ricambi di abito e qualche accessorio, appare significativa in un caso del genere (per poter avere almeno un paio di giorni di autonomia). Si ricorda del resto che secondo le procedure di Protezione Civile ogni soccorritore deve essere assolutamente autonomo per almeno le prime 12/24 ore, anche per quanto riguarda l'alimentazione...

Una nota finale è relativa all'operatività degli psicologi in situazioni di lutto diffuso, ed alla percezione che si può avere del nostro ruolo: si leggeva sui giornali che in un paio di momenti sembra esserci stata una certa tensione tra parenti delle vittime ed alcuni psicologi, percepiti a tratti come un pò invasivi: "non abbiamo bisogno di essere psicoanalizzati, ma solo che ci lasciate un pò in pace con il nostro dolore", sembrano aver detto dei parenti ad un paio di colleghi, forse calatisi un pò troppo nella parte di "premurosi soccorritori".

Non so cosa sia successo esattamente nel caso specifico, ma, più in generale, lo psicologo in emergenza deve sempre ricordarsi che è solo un sostegno temporaneo ed un piccolo "catalizzatore" dei normali processi di recovery psicologica dei suoi assistiti, e "fare troppo lo psicologo" serve solo al suo narcisismo, ed a bloccare le persone che hanno subito il dramma ad una pericolosa attribuzione di impotenza e passività...

Un'estate complessa...

Dopo una breve pausa estiva, riprendono le pubblicazioni del Blog.
L'estate è stata foriera di eventi drammatici, sia sul versante terroristico (dopo gli attentati di Sharm e quelli di Londra del 7 luglio, di cui al post precedente, ci sono stati i tentativi di strage del 21 luglio), sia su quello aeronautico: tre aerei precipitati in pochi giorni, di cui uno in Italia.

Gli eventi dell'ATR72 caduto a Palermo, ancora sotto inchiesta, hanno visto una forte mobilitazione di gruppi di psicologi dell'emergenza italiani. In particolare, si sono attivati 20 psicologi pugliesi coordinati da Michele Cusano (SIPEM) e 25 siciliani coordinati da Daniele La Barbera (dell'Università di Palermo). I gruppi coinvolti, in collaborazione con i colleghi strutturati nelle ASL e negli ospedali siciliani, hanno garantito un supporto psicologico continuativo ai sopravvissuti ed ai parenti delle vittime, per tutti i giorni successivi all'evento. Entro breve saranno postate alcune riflessioni su quello che è successo, almeno a valutare dai lanci di agenzia.

L'estate è stata drammatica anche sul fronte della guerra irachena: sono ripresi gli attentati in diverse città, e si sono intensificati gli attacchi contro i contingenti occidentali. L'effetto psicologico delle continue traumatizzazioni belliche sui militari statunitensi, e le procedure di Combat Stress Control implementate per mitigarli sono stati delineati da un recente rapporto dell'U.S.Army: trovate qui un interessante articolo in proposito.

07 luglio 2005

Londra

Ed ecco che dopo gli attentati di Madrid del 2004, con metodologia apparentemente molto simile sono stati condotti gli attentati di Londra 2005, in corrispondenza del G8:

link su Repubblica Online


Delle conseguenze psicologiche individuali degli attentati terroristici è stato scritto tanto; ampie sintesi si possono trovare sul sito del National Center for Post-Traumatic Stress Disorder o sulle ampie Trauma Pages di David Baldwin.
Ma quello che veramente colpisce in eventi di questo tipo sono le conseguenze psicosociali a medio termine: il senso di insicurezza, la confusione, le ferite al senso di sicurezza comunitario.

Janoff-Bulman, parlando della "crisi" delle sicurezze assiomatiche che ogni uomo si trova a provare davanti alle situazioni traumatiche (gli assunti di base secondo cui "il mondo è sicuro", "nessuno mi vuole fare del male", "il mondo è prevedibile", etc.), forse si è focalizzato troppo sulla dimensione individuale; queste certezze, davanti a certi eventi, vengono meno anche a livello collettivo, e l'obbiettivo psicologico degli attacchi terroristici è proprio questo: l'insensatezza individuale dell'evento (per chi ne è vittima) come fondamento di un disorientamento collettivo.

14 maggio 2005

Interventi fuori contesto...

Il lavoro psicologico d'emergenza all'estero presenta sfide importanti.
Nella cooperazione internazionale, il desiderio di "partire per aiutare ad ogni costo" rischia di tradursi, per lo psicologo un pò troppo incline ad "agiti" improvvidi, in un sacco di difficoltà.
Le differenze e le barriere linguistiche e culturali svolgono infatti un ruolo fondamentale di impedimento nell'implementazione di interventi psicologico-clinici "ortodossi".

Come si può fare "psicologia clinica classica" senza conoscere nemmeno la lingua delle persone con cui interagiamo, e senza soprattutto sapere nulla del loro sistema culturale e della loro struttura sociale ? Come possiamo lavorare con persone di cui spesso ignoriamo i più elementari modi di organizzare la propria realtà personale, relazionale e collettiva ?
E siamo poi sicuri che metodi e tecniche psicologiche fortemente basate ed intrise in una specifica "teoria della mente", costruite da occidentali per lavorare con altri occidentali, possano trovare adeguato fondamento ed applicazione anche in realtà in cui le "teorie della mente" implicite sono molto diverse ?

Un interessante e breve articolo di Medecins Sans Frontiers, che analizza questo problema classico alla luce della recente esperienza dello Tsunami asiatico, si può trovare qui !
Merita una lettura !

Un saluto,
Luca

07 maggio 2005

La Percezione dei Rischi e la ricerca cognitivista...

E' uscito da poco un volumetto piuttosto interessante:

"Nuovi Rischi, Vecchie Paure"
di L.Savadori e R.Rumiati,
Il Mulino, 2005 (208 pagg., 12,50 euro).

Il libro presenta due aspetti stimolanti: una copertina con un bellissimo gatto nero (scusatemi, ma ho un'insana passione per i felini !) e, soprattutto, la capacità di esporre in maniera semplice, divulgativa e sintetica lo stato dell'arte della riflessione cognitivista sulla percezione e valutazione dei Rischi.

Il volume analizza una serie di casi e ricerche classiche in maniera chiara ed accessibile anche al lettore non specialista, ampliando poi la riflessione sulle più recenti ricerche relative alla "Affect Heuristic", l'importante euristica (cioè la strategia cognitiva di ragionamento) studiata in anni recenti dal gruppo di Slovic e della Finucane. Slovic è il fondatore del gruppo di ricerca dell'Università dell'Oregon noto per aver fornito i contributi principali essenziali al cosiddetto "Paradigma Psicometrico" della Risk Perception.

La Risk Perception è uno dei settori di maggiore interesse della psicologia dell'emergenza; più che occuparsi dei temi "clinici" (come la psicoterapia del trauma), la ricerca sulla percezione dei rischi approfondisce il tema della rappresentazione cognitiva ed emotiva dei "rischi", cercando di capire "come ci rappresentiamo i rischi" e come i nostri comportamenti di fronteggiamento, prevenzione o protezione, anche a livello collettivo, dipendano da queste rappresentazioni mentali.

Il paradigma psicometrico, per molti motivi (in primis, per la sua "omogeneità epistemologica e metodologica" con gli assunti di base del mainstream cognitivista della ricerca psicologica anglosassone), ha assunto un ruolo di primo piano in questo tipo di studi, e la "Affect Heuristic" è il suo frutto più recente.

Come sa bene chi mi conosce, personalmente non amo molto la vena "iper-razionalista" e funzionalista presente in tutto l'approccio psicometrico; l'Affect Heuristic rappresenta però forse una prima apertura degli approcci rigidamente cognitivisti della Risk Perception classica verso temi e modelli teorici più "flessibili" ed attenti alle dinamiche emotive, soggettive e simboliche del rischio e dell'emergenza.

Il libro espone bene questa linea di studio, ed offre anche ai non psicologi la possibilità di approfondire questi temi, in maniera interessante e piacevole.

Un saluto,
Luca

05 maggio 2005

Risposte ! :-)

Le risposte alle domande- provocazione di un mese fa; se siete psicologi e non le sapevate, vuol dire che l'idea di fare un corso-base di Protezione Civile, Anti-incendio e di Primo Soccorso / BLS prima di partire per lavorare in una maxi-emergenza non è poi così cattiva o inutile... quello che si deve sapere per lavorare in un'emergenza non si impara solo nelle Facoltà di Psicologia... anche se alcuni colleghi forse non lo hanno ancora capito ! :-)

Cos'e' un Estricatore:
Strumento di "estricazione" dalle lamiere costruito in modo da ridurre il rischio di lesioni vertebrali durante la mobilizzazione del ferito (rischio grave in situazione di incidenti stradali). Mobilizzare un traumatizzato è una delle manovre più pericolose che ci siano, non va MAI fatta alla leggera o da una persona inesperta (se non in condizioni di sicuro ed imminente pericolo di vita, come il crollo di un palazzo o l'incendio con rischio esplosivo di una macchina).

Come si usa l'Estintore:
Verso la base delle fiamme, assecondando la direzione del vento e tenendo un angolo di 90° rispetto ad un eventuale co-soccorritore. Stringendo bene, perchè la spinta della manichetta è piuttosto forte. E mi raccomando, l'anello di sicurezza estratto, tenetelo infilato sul dito, perchè se lo buttate a terra e non lo ritrovate non potete più mettere in sicurezza l'estintore dopo aver finito di usarlo... :-)

Prima cosa da costruire in un Campo-Base:
Le Latrine.
Si, proprio le latrine (nel giro di poche ore serviranno proprio a tutti !).
Poco poetico ? Molto pragmatico !
Ed, ovviamente, la tenda - posto di comando e la tenda - posto radio.

Cosa si usa per disinfettarsi all'aperto:
No, non il disinfettante. Nemmeno l'alcool.
O meglio, il disinfettante si usa dopo... ma prima si usa l'acqua ossigenata. Perchè ?
Perchè le spore tetaniche vengono eliminate dall'acqua ossigenata, ma non dai disinfettanti al cloro del supermercato... e le spore si trovano, ampiamente diffuse, su tutto il terreno aperto (e non solo, come si pensa, sul metallo arruginito... si dice che sono sulla ruggine perchè la ruggine si sviluppa sul ferro esposto alle intemperie, all'aperto, e quindi, come in molti luoghi aperti, può essersi anche ricoperto di spore tetaniche).
Quindi, una passata immediata con abbondante acqua ossigenata, poi con un altro disinfettante.

Luca

08 aprile 2005

La formazione minima per lo Psicologo dell'Emergenza

Recentemente, si è avuto modo di parlare con alcuni amici dei criteri di formazione per gli psicologi dell'emergenza.

Ovvero, quali sono i "criteri minimi" per fare di uno psicologo "generico" uno psicologo dell'emergenza ?
Ci sono varie risposte possibili a questa domanda; risposte che ovviamente riflettono diversi modi di concepire il ruolo professionale, o la serietà dei proponenti. Molti proponenti di corsetti sulla "psicologia dell'emergenza" hanno un forte interesse economico a far credere che per diventare psicologi dell'emergenza qualificati sia sostanzialmente sufficiente un corsetto di venti o trenta ore, in cui si spiegano (acriticamente e meccanicamente) i concetti fondamentali della traumatologia psichica. Senza entrare in ulteriori meriti di giudizio rispetto a certi "psicoavventurieri", stimolato dagli amici di cui sopra, ecco quella che a mio parere può essere una formazione di base più adeguata a questo ruolo.

- Laurea in Psicologia

- Abilitazione Professionale

- Corso di base di Protezione Civile

- Corso BLS (primo soccorso)

- Un corso SERIO di psicologia dell'emergenza (che NON è solo "psicotraumatologia", anzi !).

Con corso "serio" intendo un corso in cui si possa ricevere una formazione a 360° su tutti i principali temi formativi dell'emergenza, con docenti sia psicologi che non psicologi (esperti di protezione civile, cooperazione, sicurezza, etc.), di alcune centinaia di ore di durata minima. E possibilmente, con una didattica non solo basata su lezioni frontali, ma anche con molte esercitazioni, case-studies, role-playing, etc. La realtà dell'emergenza è sempre molto più complessa di quella presentata dai modellini teorici...

- Un tirocinio /stage di alcune centinaia di ore in situazioni e contesti legati all'emergenza, il rischio o la sicurezza, con una parte di tipo clinico ed una non-clinica (il lavoro dello psicologo in emergenza è spesso di tipo clinico... ma non solo).

- La buona conoscenza di almeno una lingua straniera, come l'inglese o il francese

- Una buona analisi (o percorso terapeutico) personale.

Punto discutibile per alcuni, ma di fatto lavorare in emergenza significa tre cose: "accettare di essere inondati da racconti dell'orrore" (Jones, 1998); doversi confrontare continuamente con i limiti propri e degli altri; dover dare significato ad eventi che non sembrano averlo.
Ed allora, meglio avvicinarsi a questo materiale emotivamente assai impegnativo a partire da un percorso personale che ci abbia permesso di affrontare ed elaborare almeno i nostri nodi problematici principali, e ci abbia permesso di capire un pò meglio come "siamo fatti" e perchè vogliamo lavorare proprio in emergenza.

- La disponibilità ad una supervisione continua.

Lavorare in emergenza significa doversi sforzare di "rimanere sani in una situazione folle" (Moram 1997), ma questo può lasciare segni pesanti anche ad un clinico esperto. Andare in supervisione regolarmente, dopo gli interventi, è una misura essenziale di autoprotezione e di elaborazione dei significati e dei vissuti legati a quanto ci è successo.

Il tutto accompagnato da un minimo di forma fisica che ci metta in grado di adattarci a situazioni impegnative, da un poco di esperienza di viaggi e movimento in contesti disagiati, ed ovviamente... una forte e chiara motivazione per questo tipo di lavoro.
La prima domanda a cui si deve SEMPRE saper rispondere prima di intervenire in tali contesti è sempre: ma perchè voglio fare proprio lo psicologo dell'emergenza ?

L'elenco è lungo, manca qualcosa ? :-)

E' vero, è tanto. Ma il lavoro dello psicologo dell'emergenza è complesso e delicato, e si svolge, per definizione, in contesti non facili; contesti in cui l'adattabilità, il focus sulle proprie risorse interne ed un buon equilibrio personale sono le condizioni irrinunciabili per poter lavorare efficacemente e senza farsi "troppo male" da soli.

29 marzo 2005

Ancora morte nel Sud-Est asiatico

Lo Tsunami Asiatico colpì il giorno dopo Natale; ed ecco che il giorno dopo Pasqua ci ritroviamo tutti davanti alla televisione, a seguire le notizie di un secondo, grande, terremoto vicino a Sumatra.
Le prime notizie indicano 1.000 o 2.000 vittime, contro le circa 300.000 dell'altra volta.

Tre o quattro i fattori che hanno contribuito probabilmente a questa differenza: l'intensità del terremoto (di circa un punto Richter inferiore a quello di Natale; essendo una scala logaritmica, un punto Richter in meno significa un'energia di 32 volte inferiore); la direzionalità del moto ondoso, che si è dispersa verso sud invece che verso est ed ovest (dove si trovano le terre emerse a più alta densità abitativa dell'Oceano Indiano); l'esperienza del primo Tsunami, che ha spinto immediatamente le popolazioni delle aree a rischio ad attuare la strategia più semplice ed efficace: l'allontanamento rapido ed immediato dalle zone costiere.

Un altro fattore che potrebbe aver contribuito è la maggiore profondità dell'ipocentro, stimato a circa 30 km sotto il livello del mare, rispetto a quello del 26 dicembre (circa 10 km di profondità). La maggiore profondità ha ridotto la diffusione dell'energia alla massa idrica sovrastante, riducendo significativamente l'intensità dello tsunami conseguente.

Purtroppo sono sempre i gravi eventi ad "insegnare" in maniera indelebile le strategie di comportamento efficaci...

2.000 morti sono comunque un numero altissimo, ed andrebbero considerate come numero "assoluto"... qualunque confronto "relativo" (2.000 rispetto a 300.000) è solo l'esito di un'euristica cognitiva, che rischia di farci pensare "ah, beh, sono morti in pochi", quando in realtà si parla di migliaia e migliaia di vite interrotte.

25 marzo 2005

I Medici del CUAMM in quarantena dopo la morte di una volontaria

Dal Corriere Online di oggi:

Angola: epidemia, 7 veneti in quarantena

PADOVA - Sono 7 i medici del Cuamm (Collegio Universitario Aspiranti Medici Missionari) di Padova, quasi tutti veneti, che si trovano in quarantena a Luanda, capitale dell'Angola, perche' si sospetta abbiano contratto il virus del morbo di Marburg, febbre emorragica simile all'Ebola. Lo conferma il dottor Giovanni Putoto, del Cda dell'organizzazione non governativa. Altri otto volontari invece sono ancora al lavoro nella provincia di Uige. Ieri a Luanda e' deceduta Maria Bonino, pediatra volontaria di "Medici per l'Africa-Cuamm". (Agr)

LUANDA (ANGOLA)
- Cresce l'allarme in Angola per l'estendersi dell'epidemia di febbre emorragica. È infatti salito ad almeno 113 il computo delle vittime dell'epidemia provocata in Angola dal virus di Marburg, causa di una febbre emorragica simile a quella del morbo di Ebola. Lo hanno reso noto fonti del ministero della Sanità a Luanda, secondo cui ben 111 tra i morti sono concentrati nella provincia settentrionale di Uige, la più colpita.

Gli altri due si sono registrati nella capitale: un quindicenne e anche la pediatra italiana Maria Bonino, 51 anni, di Aosta, che da undici anni operava in Africa, e che prestava la sua opera presso l'ospedale provinciale di Uige. Volontaria di «Medici con l'Africa-Cuamm», la dottoressa aveva cominciato a manifestare gravi sintomi il 19 marzo, e nella notte del 23 le sue condizioni si erano improvvisamente aggravate.

La malattia, che si propaga attraverso il contatto con i fluidi delle persone già contaminate, fu diagnosticata per la prima volta nel 1967 nella città tedesca di Marburg: una forte febbre, seguita da emorragie interne, assalì i lavoratori di un laboratorio che erano venuti a contatto con scimmie infette, provenienti dall'Uganda.




23 marzo 2005

Acqua e Disastri

Molti non lo sanno, anche se lo Tsunami del 26 dicembre potrebbe aver fatto venire qualche dubbio.
Se si chiedeva, fino ad un pò di tempo fa, quale è il disastro che causa più vittime, spessissimo la prima risposta era "il terremoto", o "le eruzioni vulcaniche".
In realtà, la categoria di disastri naturali che uccidono di più non è (e non è mai stato) nè il terremoto nè l'eruzione vulcanica, quanto... i disastri idrici.
Inondazioni, alluvioni e tsunami sono infatti i fenomeni calamitosi che più di ogni altro fanno vittime umane, e causano enormi danni economici (in particolare nei paesi in via di sviluppo).

Per capirne di più, può valere la pena andare a studiarsi le interessantissime tabelle di sinossi del CRED, il celebre Centro per l'Epidemiologia dei Disastri dell'Università di Lovanio.

Si può così scoprire che molte delle nostre preconcezioni o modelli mentali dei "disastri" sono piuttosto diversi dalla realtà...

Paradossalmente, una delle grandi emergenze del 21° secolo (anche a causa delle dinamiche climatologiche) sarà proprio la carenza di acqua, la siccità, la grande estensione delle zone desertificate ed il peggiormento della qualità delle acque... centinaia di milioni di persone soffrono attualmente per la carenza di acqua, mentre centinaia di migliaia vengono uccise dalla forza dell'acqua.

In entrambi i casi, il ruolo dell'azione antropica è centrale nel peggiorare i processi e le condizioni di interazione tra comunità umane e risorse idriche: il "disastro" deriva sempre dall'interazione tra processi naturali ed antropici (spesso un pò troppo "disarmonici": basti pensare alle costruzioni costiere o golenali in aree ad altissimo rischio alluvionale, di cui anche in Italia abbiamo molti esempi...)

Acqua che dà la vita, acqua che la toglie... un tema complesso e delicatissimo, oggetto di molte delle riflessioni e dei lavori del World Water Day, la Giornata Mondiale dell'Acqua (che si celebra, sotto gli auspici dell'ONU, il 22 marzo di ogni anno).
Dateci un'occhiata !

Sono queste molte delle "maxiemergenze" con cui ci dovremo confrontare, anche come psicologi, nei prossimi anni e decenni...

Un saluto ed un augurio di Buona Pasqua a tutti,
Luca

10 marzo 2005

Basta essere "psicologi" per essere "psicologi dell'emergenza" ?

Uno psicologo dell'emergenza, per definizione, ha due identità: quella di psicologo (e fin qui quasi ci siamo; mi riservo a qualche periodo futuro la riflessione sulla differenza tra "psicologo" e "psicotecnico"), e quella di operatore dell'emergenza.
Banale ? Non esattamente.

Troppo spesso chi vuole fare lo psicologo dell'emergenza si dimentica che, prima che essere psicologo, deve essere appunto un "operatore dell'emergenza", qualificato e formato per questo.
Questo ha varie conseguenze, troppo spesso dimenticate dai vari "wannabe-salvo-tutti-mi", cioè da chi parte psico-rambescamente per portare la sua presunta scienza terapeutica negli scenari dei disastri senza minimamente sapere cosa è un disastro e come operano tutti gli altri volontari e professionisti dell'emergenza che gli si muovono intorno.

Si può fare lo psicologo dell'emergenza senza aver ricevuto un breve ma solido training di base nelle "tecniche dell'emergenza" ? Ovvero, è possibile andare a fare lo psicologo in contesti di emergenza senza sapersi nemmeno muovere in tali contesti ?

Alcuni psicologi ritengono che il loro ruolo di psicologi li ponga automaticamente "al di sopra" di tali necessità "terrene".
"In fondo, dicono, non sono certo io a dover usare una motopompa; lo faranno altri". E' vero, in condizioni ordinarie lo faranno altri. Questo però non esime lo psicologo, che deve avere una comprensione di base a 360° di quello che gli succede intorno, dal capire cosa fa, in concreto, chi deve usare una motopompa.
Ma non solo, c'e' di più. Sapersi "muovere in emergenza" significa anche sapersi tutelare quando le normali "regole di vita quotidiana" non valgono più.

Domande banali, ma da cui si ottengono spesso risposte inquietanti: prendete 10 laureati e qualificati psicologi dell'emergenza, e chiedete loro tre o quattro semplici cose, assolutamente scontate per ogni volontario di Protezione Civile di diciott'anni... ad esempio...

1 - Cos'e' un "Estricatore" ?

2 - Come si orienta l'estintore rispetto alle fiamme quando si spegne un principio di incendio ?

3 - Quale è la prima "struttura" che si deve montare in un campo di accoglienza ?

4 - Con cosa ci si disinfetta, esattamente, dopo essersi fatti un taglio all'aperto ?

Sembrano banali ?
Forse sono le risposte che abbiamo già in mente, e che riteniamo automaticamente giuste, a farcelo pensare... le risposte "esatte" (che a volte sono controintuitive) le metterò in futuro sul Blog. Intanto pensateci !
Il nucleo del problema è che lo psicologo che pensa che per lavorare in emergenza basti una "competenza psicologica", potrebbe scoprire che quello che immaginava è molto diverso dalla realtà...

E' per questo che credo che nessuno possa definirsi "psicologo dell'emergenza" se prima non ha seguito almeno un corso di Pronto Soccorso (tipo BLS) ed un corso-base per Volontari di Protezione Civile.

Saper fare una saccata (o sapere come viene fatta), saper usare un estintore, saper montare una tenda, saper badare a sè stessi in mezzo ad un campo di accoglienza (che è molto più difficile di quanto si pensi), conoscere le regole di autoprotezione e autosoccorso valide nei contesti "difficili" in cui si va ad operare, non solo rende lo "psicologo normale" uno psicologo in grado di muoversi in sicurezza in queste situazioni, ma anche un professionista in grado di coordinarsi in maniera più efficace con tutti gli altri enti e persone con cui lavora fianco a fianco.

In fondo, se è lo psicologo per primo a non capire cosa gli succede intorno (procedure, modalità di intervento, aspetti "culturali" e operativi degli altri enti e gruppi di soccorso), come può aiutare i suoi assistiti a "capire che cosa sta succedendo" ?

09 marzo 2005

11-M

11-M: 11 marzo 2004, Madrid.

L'attentato, di cui sta per cadere il primo anniversario, causò 191 morti ed un'ondata di stupore ed emozione in tutto il mondo. Il dramma, definito giustamente l'11 Settembre europeo, ha portato con sè il peso delle sequele post-traumatiche per centinaia e migliaia di persone.
Un'eccellente ed ampia scheda informativa multimediale, con grafici, tabelle, informazioni, carte su quello che successe un anno fa è consultabile qui: http://www.cadenaser.com/comunes/2004/11m/portada.html

La mobilitazione dei servizi di soccorso sanitario, e delle strutture di assistenza psicologica "ordinaria" presenti sul territorio, oltre alla grande collaborazione e generosità degli psicologi madrileni, permise in quei terribili giorni di erogare servizi di supporto psicologico a moltissime "vittime" di questo evento.

Renata Cavalli, una masterizzanda di madrelingua spagnola del Master di Psicologia dell'Emergenza dell'Università di Padova (http://emergenza.psy.unipd.it), si è recata nell'estate del 2004 a Madrid, raccogliendo ed organizzando per alcune settimane le testimonianze dei responsabili di tutte le associazioni professionali e degli enti pubblici che si sono occupati di gestire l'emergenza psicologica dell'11-M.
Spero che sia presto possibile consultare online un estratto del suo ottimo lavoro, che rappresenta in maniera fedele le complesse dinamiche organizzative attivate da un'evento catastrofico di simile portata.

07 marzo 2005

Repubblica.it: Lacrime e dolore, l'Italia si stringe attorno al feretro di Nicola Calipari

Repubblica.it: Lacrime e dolore, l'Italia si stringe attorno al feretro di Nicola Calipari

Da Repubblica.it: "Uno Schindler africano nell'inferno del genocidio"

Da Repubblica.it: "Uno Schindler africano nell'inferno del genocidio"

"Hotel Rwanda" è un film che cerca di raccontare il genocidio attraverso la prospettiva di una persona particolare, coraggiosa, un Hutu che ha salvato 1.200 Tutsi durante i giorni infernali dei massacri per le strade. Non ha vinto gli Oscar che sperava (a quando però, oltre agli Oscari per gli Effetti Sonori, i Costumi e quant'altro, anche un Oscar per l'Impegno Sociale ?), ma l'importante è il messaggio che vuole passare... e soprattutto che qualcuno continui a fare film del genere.

23 febbraio 2005

Da "Repubblica.it". Giocare per sconfiggere l'onda: Kit Unicef speciali per l'Asia

Repubblica.it, Esteri: Giocare per sconfiggere l'onda. Kit Unicef speciali per l'Asia
Articolo interessante sugli interventi di supporto ai bambini colpiti dal terribile Tsunami del 26 dicembre. Le metodologie di supporto psicologico per i bambini basate sul gioco sono diffuse e piuttosto efficaci. L'intervento dell'Unicef, tra l'altro, presenta importanti elementi di attenzione specifica ai differenti contesti culturali e processi di "sensemaking" tipici delle differenti realtà in cui il disastro ha impattato.

21 febbraio 2005

Il conflitto a fuoco di Verona

Condoglianze sincere a tutti gli operatori della Polizia di Stato di Verona, per la tragica morte dei loro colleghi Davide Turazza e Giuseppe Cimarrusti nel conflitto a fuoco di questa notte.

16 febbraio 2005

Peccati originali...

La psicologia dell'emergenza, in Italia, sconta un peccato originale.
Molti pensano che sia una moda, una delle tante piccole novità che ogni tanto emergono nell'orizzonte professionale, con poca o nulla sostanza ma illudendo un pò di colleghi disoccupati o in crisi di identità. Qualcuno, in effetti, l'ha interpretata così, e purtroppo se ne sono visti i nefasti effetti. Ma la psicologia dell'emergenza, per come sta emergendo in molti contesti, è qualcosa di molto più e di diverso rispetto a questo.

E' una psicologia trasversale. Ovvero, rappresenta un modo potenzialmente nuovo e interessante di riconcettualizzare temi, metodi e contenuti di molte altre branche della psicologia di base ed applicata. Se non facciamo l'errore grave di identificare la psicologia dell'emergenza con la psicoterapia del trauma, che è tutta un'altra cosa, ci rendiamo conto facilmente che nella psicologia dell'emergenza, necessariamente, rientrano numerosi contributi e prospettive metodologiche di altri settori delle scienze psi: dalla psicologia della comunicazione alla psicologia dei gruppi, dalla psicologia cognitiva ai modelli dinamici della clinica, dalla psicopatologia dello sviluppo alla psicologia culturale... molte delle tradizioni di ricerca più importanti della psicologia hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo di modelli autenticamente integrati e trasversali per il lavoro sull'emergenza.

Ovviamente, questo non significa fare un confuso eclettismo affastellatorio, anzi...
Significa, al contrario, saper discriminare lucidamente tra le ben differenti prospettive epistemologiche che fondano i diversi tipi di contributi, le diverse teorie ed i diversi modelli, focalizzandone gli "spazi di movimento e intersezione possibili", proprio alla luce curiosa delle ineludibili specificità dell'Emergenza.
E' un'operazione concettualmente complessa ma operazionalmente inevitabile se si vuole fare della "buona psicologia" dell'emergenza: dobbiamo quindi noi psicologi per primi riportare forti spazi di pensiero in un settore, come quello dei modelli di intervento in emergenza, che è finalizzato proprio a creare spazi di pensiero in situazioni in cui il "Pensare" viene di solito eliso e negato dall'ansia e dall'urgenza del "Fare una qualunque cosa subito".

12 febbraio 2005

Psicologi dell'emergenza ed altre discipline

Gli psicologi dell'emergenza "frequentano" altre discipline scientifiche ?
Il dubbio è lecito, perchè a livello internazionale, nei vari appuntamenti scientifici sul rischio, la sicurezza e l'emergenza, di psicologi se ne vedono sempre pochi. Prendiamo ad esempio l'ultimo incontro annuale SRA-E (Society for Risk Analysis Europe), che si è tenuto a Parigi a novembre. Si tratta forse del più importante incontro interdisciplinare di studi sul rischio e l'emergenza che si tenga in Europa. C'erano tutti: ingegneri che parlavano con i sociologi, economisti che parlavano con i geologi, medici che parlavano con i metereologi, chimici che parlavano con gli avvocati, architetti che parlavano con i geografi. Tutte le professionalità che, pur trasversalmente, vengono investite a vario titolo nella "gestione dell'emergenza" si confrontavano ampiamente e con poche "barriere di specie" tra di loro.
E gli psicologi, che pure si vorrebbero "esperti integratori di saperi differenti" ?
Ce ne erano ben 3 (si, tre), e così facendo hanno lasciato a ragionare di psicologia delle emergenze gli ingegneri ed i sociologi.
Fate un salto e divertitevi con gli atti del Convegno: Sra-E 2004

Ah, quest'anno l'appuntamento SRA-E è in settembre a Como. Andrà meglio ?

08 febbraio 2005

Un brano interessante sugli interventi nello Tsunami...

Su Repubblica Online, dopo lo Tsunami, sono stati pubblicati interessanti estratti dai "Diari sul campo" di un operatore di Medici Senza Frontiere (MSF), Sergio Cecchini.
Anche se è facile individuare alcuni dei modelli teorici sottesi alle pratiche implementate da queste brave psicologhe, alcune parti di questa descrizione potrebbero davvero stimolare alcune riflessioni sull'operatività in situazioni di questo tipo, in cui la clinica dell'emergenza deve veramente "uscire" dalla logica della tecnica fine a sè stessa, pur portando una "struttura interna" in situazioni completamente destrutturate...

Le ferite invisibili

Sigli, martedì 11 gennaio 2005.

"Laetitia e Faye sono due psicologhe di MSF. La prima è belga e la seconda indonesiana. Hanno già lavorato nei progetti di assistenza allo stress post traumatico in situazioni di conflitto ad Ambon, in Indnesia. Adesso sono qui per avviare i progetti di supporto psicologico rivolti ai sopravvissuti dello tsunami. "Da quando abbiamo iniziato - mi spiega Laetitia - abbiamo già effettuato 70 colloqui individuali e organizzato due terapie di gruppo per 40 persone su un totale di sei campi sfollati. E' solo ora che le persone iniziano a realizzare quello che è successo e ciò che hanno perso." Alle otto del mattino parto con loro e due infermieri indonesiani per raggiungere il campo sfollati di Batee, dove vivono 207 famiglie, circa 960 persone, in tende immerse nel fango. Sono i sopravvissuti di due villaggi sulla costa, dove sono morte 166 persone e altre quattro risultano tutt'ora disperse. "Non abbiamo acqua - ci dice Nario, quello che sembra essere il boss del campo - e vogliamo tornare ai nostri villaggi. Il nostro lavoro, la nostra vita è vicino al mare." Ma in realtà molti hanno ormai il terrore del mare e in più temono che i fantasmi degli scomparsi vogliano punirli. Molte persone sono convinte che lo tsunami sia stata una punizione e un avvertimento per condurre una vita più etica. Le malattie più diffuse a Batee sono la diarrea e le infezioni della pelle, in particolare la scabbia, ma ci sono anche diversi feriti. Al centro del campo c'è una specie di palafitta di legno dove i due infermieri iniziano a visitare e curare le persone.

Durante le visite, i due infermieri chiedono ai pazienti se soffrono di mal di testa, d'insonnia, di bruciori allo stomaco, di stati d'animo particolari. Quando qualcuno presenta uno di questi sintomi lo mandano della altre due "dottoresse" che, sistemate in una stanzetta di legno protetta e isolata da sguardi indiscreti, iniziano a parlare con il paziente e a indagare se si tratta di fenomeni causati da un trauma subito. Per chi è sopravvissuto adesso arriva il momento peggiore. "E' solo dopo aver soddisfatto i primi bisogni indispensabili per vivere, come guadagnare dei soldi, comprare del cibo, vedere che uno ce l'ha fatta o ce la può fare, che le persone iniziano a percepire la perdita - mi spiega Faye - ed è ora che dobbiamo intervenire perché poi subentra la fase del dolore, dell'apatia, della depressione che spinge, ad esempio, i feriti a non curarsi più, le persone a non rispettare le condizioni d'igiene, le mamme a non prendersi più cura dei loro figli, gli uomini a non lavorare più." Alla fine della mattinata Faye e Laetitia hanno visitato tre persone e i due infermieri circa 100.

Banda Aceh, martedì 19 gennaio 2005.

Oggi Faye parte per Meulaboh. Piccola piccola, è una delle persone più energiche che abbia mai incontrato. E' una psicologa, è indonesiana, è ha già lavorato nei progetti di assistenza mentale di Medici Senza Frontiere. Ad Ambon, isola a sud dell'Indonesia, era parte del team che lavorava sullo stress post traumatico causato dal conflitto che vede contrapposti cristiani a musulmani. Feye è arrivata a Banda Aceh il 31 dicembre, cinque giorni dopo lo tsunami. Il suo team ha effettuato più di 100 consultazioni individuali. L'intervento viene svolto sempre al seguito delle cliniche mobili. Quando una persona si presenta ai nostri infermieri con problemi psicosomatici, mal di testa, insonnia, gastrite, viene indirizzata da Feye. Dentro una tenda sotto un sole cocente, in una baracca di legno o nel bagagliaio della jeep, la piccola psicologa indonesiana si mette "in ascolto". Mi spiega il metodo che usano, lo chiamano "brief therapy" (terapia breve). La prima fase di questo metodo serve a creare una connessione tra il problema fisico di cui le persone soffrono e il loro stato d'animo. In questo modo si apre una breccia, che permette al paziente di elaborare il proprio problema e prenderne coscienza. A questo punto si entra nella seconda fase: far trovare alla persona le proprie risorse per stare meglio e insegnarle a farne uso. "Chiediamo se c'è stato qualcosa, nelle ultime tre settimane, che abbia avuto degli effetti positivi - mi spiega Feye - cantare una canzone, giocare con il proprio figlio, parlare con gli amici. Una volta che la persona scopre che in un determinato momento, svolgendo una determinata azione è stata meglio, ecco che il nostro obiettivo è raggiunto. Adesso saprà come poter aiutarsi in qualunque momento." Il problema è spiegare ai sopravvissuti che le proprie reazioni sono del tutto normali rispetto a un evento anormale. Dopo una giornata inera passata a contatto con storie disperate, Feye è sempre lì, allegra e affettuosa. L'immagine di lei che mi porterò nei miei ricordi è di quando, ogni tanto, faceva capolino dal cofano della jeep e ci regalava un sorriso. "

(L'autore del brano citato è Sergio Cecchini, di MSF Italia; gli articoli originali sono reperibili qui).

A proposito, il Rapporto Finale sulle attività di MSF nello Tsunami asiatico è qui: vale proprio la pena darci un'occhiata.

07 febbraio 2005

Piano piano...

Beh, piano piano il blog inizia a ricevere accessi.
Ma quello che più è importante è che si inizi a contribuire e partecipare alla discussione, anche condividendo situazioni, riflessioni, pareri, segnalazioni.

Come ?
E' semplicissimo. Basta cliccare in fondo al post cui si vuole rispondere o aggiungere qualcosa, sulla scritta "comment" in bianco. Da lì, si clicca su "Post Comment", scrivete il vostro contributo et voilà, fatto. Se volete, in assoluto anonimato.

Rendiamolo un blog vivo ! Di esperienze da condividere o riflessioni da fare penso ce ne siano tante.
Buon blog a tutti !

22 gennaio 2005

Volontariato e Psicologia dell'Emergenza...

Psicologia dell'emergenza, Volontari del Soccorso, Volontari della Protezione Civile… ci sarebbe molto di cui parlare.

I Volontari (ma anche i professionisti dell'emergenza: IP, medici, funzionari…) si trovano spessissimo a contatto con situazioni ad alta densità emotiva: ansia, angoscia, depressione, paura, confusione, aggressività sembrano saturare il "campo operativo". Spesso si vorrebbe avere la parola "giusta", il commento appropriato, il modo di porsi, di parlare e di ascoltare che rassicuri e stabilizzi anche psicologicamente il paziente ed i suoi familiari, mentre ci occupiamo di stabilizzarlo fisicamente. E' un esigenza che in realtà c'e' sempre stata, ma solo recentemente ci si è iniziati a porre il problema in maniera più consapevole.
Ed anche noi operatori abbiamo bisogno di rivedere emotivamente cosa ci è successo, dopo un intervento particolarmente impegnativo o ricco di ansie e difficoltà (come un codice rosso pediatrico, od un incidente maggiore in cui le vittime hanno subito lesioni molto gravi). Parlare delle emozioni vissute, tra Volontari, a volte è difficile: c'e' sempre l'impressione che il collega accanto abbia "retto meglio", e non si vuole dimostrare l'ansia provata. Si smonta dal turno di servizio e si torna dritti a casa, portandoci dietro il nostro spiacevole vissuto.
Sbagliato: la letteratura scientifica ripete, dati alla mano, che precludersi la possibilità di parlare di cosa è avvenuto, con libertà, con i propri colleghi può essere un grave fattore di rischio per lo sviluppo di reazioni traumatiche in futuro. Se si riesce, meglio scambiare due parole subito (magari proprio per scoprire che anche gli altri si sono sentiti in difficoltà), che andarsene a casa chiudendo in un rigido silenzio quanto si è provato.

Sono in realtà tutti temi di grande complessità, poche righe non possono renderne ragione. Ma magari, con il contributo degli amici Volontari, mi piacerebbe approfondirli un po’...

20 gennaio 2005

Qualche risorsa per iniziare...

Siete interessati alla Psicologia dell'Emergenza ?
Siete professionisti Psi-, o operatori professionali dell'emergenza (Volontari della Protezione Civile, della Croce Rossa, operatori delle Forze dell'Ordine) che vogliono saperne di più ? Eccovi alcune risorse per partire…

1) Il sito del Master Post-Lauream in Psicologia dell'Emergenza della Facoltà di Psicologia dell'Università di Padova contiene molte risorse ed elenchi di links interessanti; andate a dargli un'occhiata:

http://emergenza.psy.unipd.it

In particolare le risorse di interesse si trovano su questa pagina, che è piuttosto ricca di riferimenti utili:

http://emergenza.psy.unipd.it/links.html


2) Su Psychomedia, la più importante rivista italiana online di psicologia e psichiatria professionali, c'e' un'intera sezione dedicata alla Psicologia dell'Emergenza e la Psicotraumatologia, con articoli, materiali, bibliografie ragionate, elenchi di links, risorse liberamente accessibili:

http://www.psychomedia.it/pm/grpind/socindx1.htm


3) Masticate un po’ di inglese ? Andate sull'Australasian !
L'Australasian Journal of Disaster and Trauma Studies è forse il più importante Journal scientifico online, a libero accesso, di psicologia dell'emergenza. Imperdibile. Ok, sono di parte: l'editor è Douglas Paton, che è un mio amico e con cui ho collaborato per diverse iniziative editoriali. D'altra parte è vero che, amicizia a parte, nella comunità internazionale della psicologia dell'emergenza l'Australasian è una vera istituzione per serietà scientifica ed estremo interesse applicativo degli articoli proposti.

http://www.massey.ac.nz/~trauma/


4) In un post precedente ho citato la scuola francese di studi sull'emergenza. Ed allora andiamo a vedere cosa combinano questi francesi... magari partendo dal celebre "Journal International de Victimologie", altro ottimo esempio di come si può fare una bella rivista scientifica online su questi argomenti.

http://www.jidv.com

19 gennaio 2005

Un libro straordinario ed alcuni spunti di riflessione ?

Dunque, alcuni spunti per partire...

Il settore della psicologia dell'emergenza è significativamente caratterizzato dalla frequente compresenza di una pluralità di modelli teorici ed applicativi che si propongono confusivamente all'attenzione del clinico. Diviene quindi di particolare delicatezza e rilevanza un'operazione di chiarificazione epistemologica e di analisi comparata degli assetti fondativi degli stessi, per enuclearne la struttura teorica implicita in maniera critica e consapevole.Il lavoro dello psicologo in emergenza è appunto quello di creare "spazi di pensiero" laddove il pensiero sembra venir eliso dagli eventi; questa creazione di senso e pensiero critico deve quindi necessariamente avvenire prima tra di noi, attraverso una riflessione attenta al "cosa fonda" i diversi modi di "pensare l'emergenza", per poter poi pensare meglio"nell'emergenza".

Purtroppo, questa attenzione al "pensare il nostro pensiero sulle emergenze" (sembra un gioco di parole, ma in realtà è qualcosa di molto serio...) sembra essere largamente assente negli approcci di marca "ultra-anglosassone" (quelli basati quasi esclusivamente su Debriefing "meccanici", assessment di massa, protocolli un pò troppo rigidi e semplicistici).
Forse la psicologia dell'emergenza italiana avrebbe più vantaggi nel ricollegarsi, da un punto di vista teorico-metodologico, a tradizioni di studio e ricerca di altro tipo, come quelle francesi (alla Lebigot, De Clercq, Crocq...) ?

Un libro molto bello su questo "secondo approccio" (maggiormente focalizzato sulla "struttura di significato" dell'esperienza vissuta, e su un pensiero sicuramente più "profondo" da un punto di vista critico-epistemologico) è:

Les Traumatismes Psychiques
F.Lebigot - M. DeClercq
Masson, Paris, 2001


Al momento attuale, è forse il pensiero psicologico più "forte" e "profondo" sulla psicologia clinica dell'emergenza che circoli per l'Europa.
Dategli un'occhiata, non credo che resterete delusi...

Perchè una "Psicologia delle Emergenze" ?

Benvenuti al Blog "Psicologia dell'Emergenza".

E' uno spazio nuovo, pensato per stimolare la discussione e lo scambio teorico, metodologico e semplicemente di "pareri" sui temi innovativi e di grande rilievo della psicologia dell'emergenza, del rischio e della sicurezza. Calamità, situazioni di crisi, piccoli traumi quotidiani ci propongono continuamente situazioni di comprensibile difficoltà, disagio personale e sociale, problematiche civiche collettive. La psicologia dell'emergenza, disciplina relativamente nuova in Italia, ma con una forte tradizione in altri paesi, cerca di "pensare e proporre" tentativi di comprensione e soluzioni per questo tipo di situazioni.

Speriamo che la giovane ma dinamica comunità degli psicologi dell'emergenza in Italia possa crescere sempre di più... non solo in termini numerici, ma soprattutto in termini di deontologia, preparazione teorica e consapevolezza critica.
Le sfide che l'attendono sono importanti, e la specificità delle problematiche del mondo dell'emergenza richiede attenzione, passione, e una grande capacità di creare pensieri e pratiche nuove...