14 maggio 2005

Interventi fuori contesto...

Il lavoro psicologico d'emergenza all'estero presenta sfide importanti.
Nella cooperazione internazionale, il desiderio di "partire per aiutare ad ogni costo" rischia di tradursi, per lo psicologo un pò troppo incline ad "agiti" improvvidi, in un sacco di difficoltà.
Le differenze e le barriere linguistiche e culturali svolgono infatti un ruolo fondamentale di impedimento nell'implementazione di interventi psicologico-clinici "ortodossi".

Come si può fare "psicologia clinica classica" senza conoscere nemmeno la lingua delle persone con cui interagiamo, e senza soprattutto sapere nulla del loro sistema culturale e della loro struttura sociale ? Come possiamo lavorare con persone di cui spesso ignoriamo i più elementari modi di organizzare la propria realtà personale, relazionale e collettiva ?
E siamo poi sicuri che metodi e tecniche psicologiche fortemente basate ed intrise in una specifica "teoria della mente", costruite da occidentali per lavorare con altri occidentali, possano trovare adeguato fondamento ed applicazione anche in realtà in cui le "teorie della mente" implicite sono molto diverse ?

Un interessante e breve articolo di Medecins Sans Frontiers, che analizza questo problema classico alla luce della recente esperienza dello Tsunami asiatico, si può trovare qui !
Merita una lettura !

Un saluto,
Luca

2 commenti:

Anonimo ha detto...

E' un po' che seguo questo blog...ed è un peccato che non sia partecipato come dovrebbe visto gli interessantissimi spunti di riflessioni postati. Per prima cosa ringrazio per i link che vengono forniti. Ma veniamo al dunque... non posso che concordare sulla tematica più volte portata all'attenzione e cioè la necessità di discostarsi da una psicologia occidentale tout court quando si opera in contesti di emergenza per fare quel doloroso passaggio che è mettersi dal punto di vista dell'altro accettando che le tecniche imparate a fatica ed efficaci nei setting protetti dei nostri studi siano del tutto fuori luogo se non dannose in un contesto culturalmente differente... ma c'è un'altra cosa che mi sono chiesta e che non posso non rilanciare... non credete che sia necessario avere anche una visione olistica delle problematiche che coinvolgono a livello socio-politico le persone che andiamo ad aiutare? Ha senso parlare di come aiutare i bambini soldato senza prendere una netta posizione rispetto alle guerre che dilaniano il continente Africano? Possiamo scrivere tutti gli articoli del mondo su come intervenire per stimolare la resilienza dei bambini coinvolti nel dramma di Beslan, ma non possiamo non sapere nemmeno a grandi linee cosa sia la storia degli scontri tra Russia e Cecenia. Credo che ragionare in senso "culturale" significhi anche questo: non solo imparare a parlare la lingua del luogo, ma avere un minimo di coscienza su quali siano gli assetti sovrannazionali che hanno prodotto i drammi sui quali tentiamo di agire. Non credete?

Luca Pezzullo ha detto...

Buondì,

in primo luogo grazie per i complimenti; anche io sono convinto che sia importante uscire da una visione "traumacentrica individuale", ed aprirsi all'importanza degli interventi relativi "all'emergenza collettiva". Sono convinto che intervenire in emergenza consista sostanzialmente nel ricostruire accettabili "Prospettive di Significato" laddove il "Significato" incontra uno scacco brutale nella realtà; nei drammi collettivi, la costruzione collettiva di Significati non può appunto prescindere da una comprensione di base del "contesto di senso" all'interno del quale assumono significato gli eventi traumatici individuali. Quindi, condivido in pieno le riflessioni proposte dall'autore di questo commento !

Un saluto,
Luca